È algida e appassionata al tempo stesso, Joyce Carol Oates. L’ho incontrata a Milano, nel corso di un’intervista collettiva. La scrittrice americana era venuta per ritirare il premio alla carriera “Raymond Chandler”, nel corso di “Noir in Festival”; ma ci ha confessato che la cosa più bella per lei era di essere a Milano, e di essere in Italia. La destinazione turistica per eccellenza, il paese più amato del mondo, di certo il più amato da lei.
Il libro ultimo uscito della sua vasta produzione è Macellaio. Che come si capisce dal titolo e dalla copertina non è una bella storia. O meglio è una storia molto bella ma atroce e dolorosa, e che prende spunto da storie realmente accadute e personaggi realmente esistiti. Si capisce anche senza aprire il libro che il macellaio del titolo non è un signore che fa di professione il macellaio. Si tratta infatti di un medico, un dottore che nella seconda metà dell’Ottocento, dopo un esperimento dalle tragiche conseguenze, approda al manicomio di Trenton, New Jersey, un istituto per donne malate di mente. Silas Aloysius Weir comincia a sperimentare operazioni chirurgiche e terapie bizzarre sulle donne ricoverate. La maggior parte delle quali sono malate di ribellione, di desiderio di scelta e di libertà, di indipendenza e di intelligenza. Sono state infatti rinchiuse e abbandonate a Trenton dai loro famigliari, mariti che non sapevano come gestirle, padri che non riuscivano a sistemarle. Spesso, spessissimo preda di violenze e stupri, portatrici di gravidanze indesiderate, ritenute incapaci di essere madri, per cui i figli venivano loro sottratti appena nati. Una volta arrivate a Trenton, si trovano a subire gli esperimenti e gli interventi del dottor Weir, che si ritiene l’inventore, il padre della “Gino-psichiatria”. Un dottore che trema alla vista del sangue, che ha anche delle intuizioni intelligenti, che osserva le pazienti con una certa scientificità, ma in cui il desiderio di fama e la certezza di essere il “padrone” delle donne in cura da lui (così come delle infermiere/assistenti che lavorano con lui), gli fa oltrepassare qualsiasi limite. L’umanità del dottor Weir, che fin dall’inizio abbiamo visto vacillare di fronte alla possibilità del potere, scompare completamente nel corso della sua carriera. Neppure alle donne morte viene data sepoltura, e la maggior parte delle morti provocate dagli esperimenti di Weir non vengono registrate, per mantenere alto lo status dell’Istituto e conservare i finanziamenti da parte della contea del New Jersey.
Buona parte del racconto ci arriva attraverso la voce stessa del dottor Weir, che ha lasciato un diario minuzioso e profondamente rivelatore. La visione del mondo a metà dell’ottocento era chiara e limpida sul conto delle donne: si trattava di esseri di poco conto, emotive e inaffidabili, incapaci di condotta morale e bisognose di guida e mano ferma. Il loro corpo era disgustoso, per quanto necessario alla procreazione. E quindi gli uomini ne erano naturalmente i padroni, gli unici a poterne determinare il destino, la vita e anche la morte.
Nella conversazione milanese, Oates ci dice quanto ritenga interessante la storia della medicina, e quanto quella storia sia rivelatrice della considerazione che la società ha delle donne. Mentre scriveva il libro pensava all’oggi, al fatto che moltissime donne ora sono dottori, e in America le iscritte donne ai corsi di medicina sono in numero superiore agli iscritti uomini. E questo è molto consolante. Meno consolante è vedere la regressione che è in corso in termini di diritti, e la frenata nella lotta alla parità. La conquista di una completa emancipazione non è ancora avvenuta, e le donne hanno ancora molto da lottare. Nel romanzo, le donne del manicomio alla fine si ribellano, e vincono perché si uniscono, combattono insieme. L’individuo da solo è debole, che sia uomo o donna, mentre il gruppo è forte. A questo proposito la scrittrice cita anche il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, in cui il riscatto passa esattamente dal fare qualcosa insieme. Quando le donne si uniscono in gruppo per andare a votare, sono vincenti.
Ma ci sono molte altre sfumature e dettagli, nel romanzo. La ragazza che il dottor Weir si vanta e si fregia di avere salvato, la bionda, esile e bellissima Brigit, che aggiunge alla colpa di essere donna quella di essere irlandese, di essere stata abbandonata dalla madre, di essere stata violentata e rimasta incinta, e che è sordomuta, guarda caso ritrova la voce nel momento in cui si ribella, in cui si fa giustizia. Liberare sé stessa e il suo corpo è come scongelare quella voce che le si era bloccata in gola. Grazie alla parola ritrovata, e alla poesia con cui riesce finalmente ad esprimere non tanto l’orrore subito quanto la bellezza ritrovata, Brigit ricostruisce la propria esistenza, ritrova la propria dignità.
La commistione tra religione e scienza che domina la pratica del dottor Weir, e soprattutto la declinazione dei precetti religiosi a uso e consumo di una persona o di un gruppo: chiediamo a Oates se è qualcosa che, nelle società secolarizzate di oggi, si è per fortuna perduto. Ma la scrittrice afferma senza esitazioni che no, questa è una modalità ancora ampiamente in uso negli Stati Uniti. Che a dispetto delle apparenze sono molto meno secolarizzati dei paesi europei, e in cui recentemente proliferano gruppi e sette di cristiani evangelici che sono molto potenti e che si stanno imponendo dal punto di vista politico. La possibilità di una catarsi, in una tragedia che sembra richiamare quelle dell’antichità: ma no, le crime stories contemporanee non si chiudono con una liberazione. Restano ancorate al vero, sono storie necessarie perché il male esiste davvero e c’è bisogno di raccontarlo. La schiavitù del corpo delle donne, che ora si nasconde e si maschera ma che permane, e che richiede attenzione e anche narrazione.
E la prosa limpida e precisa, il linguaggio che non si sottrae neppure alla peggiore descrizione: queste sono caratteristiche della scrittura unica di Oates, che ritroviamo anche in Macellaio. Una lettura dolorosa e talora sconvolgente, ma importante soprattutto per noi donne. Perché è un po’ come se la scrittrice ci dicesse: guardate da dove arriviamo, guardate cosa pensavano ancora duecento anni fa gli uomini, nella libera America: e dunque stiamo attente, perseveriamo, lottiamo ogni giorno perché il cambiamento, nella mente dei maschi, richiede ancora tanto lavoro e forse più tempo di quel che vorremmo. Ma è più che mai necessario.