Anni fa Massimiliano Parente scriveva che negli USA sono molto più noti Fabio Volo, Giorgio Faletti e Melissa P., mentre non troveremo Arbasino e Busi né Isabella Santacroce e Michele Mari. Può darsi che Parente cercasse questi nomi nella rete e non negli alloggi americani, e può darsi che oggi la situazione abbia visto modifiche. Resta il fatto che nelle alte e medie sfere del lettore nostrano si trovano anche nomi giusti, oltre ai soliti spudorati Follett, Smith & Soci. Roth, Vollmann, Pynchon, King si scorgono spesso su tavoli e tavolini, e perfino nelle classifiche. Insieme a Joyce Carol Oates, naturalmente. Nonostante la mole dei romanzi della suddetta, in ultimo, abbia superato il livello di guardia. Non della qualità, sia chiaro, ma della capacità di sostenere adeguata concentrazione nel lettore.
Oates, grande scrittrice vivente (a lei nessuno pensa mai come protagonista di un Nobel, tranne forse l’ineffabile – è un complimento – Parente) a cui la modernità fa un baffo e giammai saluterebbe Beckett preferendogli certi autori indaganti le tortuosità e le incontinenze termodinamiche, compresa l’aleatorietà temporale. Sarà mica un caso la pubblicazione, nel 2018, di Hazards of Time Travel.
Ma Oates non ha dubbi, avanza con la sua scrittura come sacerdotessa che senza sussiego o malizie prosegue le descrizioni di una società potente e pericolosa, denunciandone brutalità e ingiustizie. Sia nelle trame di estesi clan metropolitani o provinciali, sia nelle vastità di un’immensa nazione. In questo romanzo la morte prende confidenza partendo dai versi di una famosa poesia di Walt Whitman che sembrano già l’energico anticipo di una narrazione che svela le vicissitudini di un’intera famiglia, e avvince la schiera di lettori verso cui dispone lo scenario integrale: nei minimi particolari, talvolta con tenerezza e talvolta con ferocia. Così come ferocemente viene aggredito da alcuni poliziotti, senza palesi motivazioni, il rispettato ex sindaco Withey quando scende in difesa di un ragazzo nero. Entrambi messi a terra con taser e pestati con violenza, l’anziano difensore non sopravvivrà all’inaudito accanimento. Dalla scena, che non può non ricordare l’omicidio di George Floyd, si avvia un’Odissea familiare gravata di tensioni, cuori infranti, costrizioni, scadenze esistenziali vaste e inconcepibili. Gruppi di persone negli intimi nuclei dell’alta borghesia bianca che nemmeno immaginano (e se mai la credono impossibile) la brutalità razzista di certa State Police. Quanta insensatezza avvertiamo in alcune posizioni, là dove il tragico – da questa parte dell’Oceano – è improbabile che lo si allinei col divertente, nonostante le popolari movenze (Woody Allen, fratelli Coen) derivative da cultura ebraica.
Lo stile di Oates è una cassa di risonanza, al suo interno i componenti della famiglia sviluppano strutture formali d’indubbia presa, in certe parti del libro si è avvolti da una nuvola sensoriale priva di vie di fuga: una volta catturati da certi quadri teatrali l’immersione è compiuta, e non resta che stare a sentire ciò che raccontano la moglie e i figli del patriarca ucciso, e aggrapparsi a istanze e desideri difficili da comprendere ma veri: indubitabilmente. Quando il dolore e la morte giungono non più dalle stelle ma da quanti dovrebbero proteggerci, l’umanità intera viene malmenata e tutti i fondamenti ricordati nel titolo – presi di peso dal verso di un grande poeta – implodono al centro di una casa che è di tutti ma smette di essere la capanna collettiva, quella che ha permesso l’evoluzione. L’evoluzione, nei salotti civili, e on the road, non esiste più, e la vita residua non avrà più possibilità di prendersi cura. Nell’ampiezza di questo romanzo non ci sono soltanto le emozioni, ma l’inevitabilità di eventi che ne creano altri, inaspettati, trascinanti sempre alla morte. A cui, nell’opera di Oates, quasi sempre si giunge dopo il sonno. Compreso quello della ragione.