Le radici incerte

Joyce Carol Oates, La figlia dello straniero, tr. Giuseppe Costigliola, La nave di Teseo, pp. 784, euro 20,90 stampa, euro 7,99 epub 

Rebecca Schwart o forse Schward nasce nel 1936 negli Stati Uniti, sulla nave che portava i suoi genitori ebrei, provenienti da Monaco di Baviera, verso la salvezza.

La storia inizia quando Rebecca è già adulta, con un marito e un figlio. In un’oscillazione tra passato e presente, lentamente si svela un’esistenza satura di interrogativi, tanto da sollevare dubbi sul concetto stesso di identità. Se l’identità è un nome, Rebecca non è certa del suo. Se l’identità sono le radici, queste sono ancora più incerte, spezzate e nascoste come sono da genitori dalla vita distrutta. Se sono i ricordi del passato, il loro significato è per Rebecca ignoto. Forse identità è collegare le esperienze tra loro, creare una storia, ma è davvero possibile darvi un senso? Su questo interrogativo, che vena il racconto, torna la stessa Joyce Carol Oates alla fine del romanzo attraverso le lettere di un personaggio che somiglia molto all’autrice stessa, con il forse vano tentativo di conferire un significato a frammenti esplosi nella memoria.

Questo non è l’unico accenno autobiografico del romanzo, in cui l’autrice rielabora anche una dolorosa vicenda familiare, forse nel tentativo di recuperare e comprendere anche la sua storia, un tentativo che dichiara fallito nelle ultime pagine. Del resto, alla contraddizione e alla controversia Joyce Carol Oates non è nuova. La pluripremiata, prolifica e talvolta detestata autrice statunitense non si ritrae certo dalle polemiche.

Uno degli aspetti più straordinari di quest’opera è però il netto contrasto fra il suo scheletro ideale, una riflessione sull’idea stessa di “storia” e identità, e il corpo del romanzo, che non potrebbe essere più fisico e concreto. Rebecca non è un’eterea e fragile intellettuale, ma una ragazza alta, con spalle larghe e capelli folti, una donna forte, un’operaia che lavora in fabbrica con un’istruzione elementare e una volontà potentissima. È anche una donna povera dei suoi tempi, ed è quindi spesso, se non sempre, intrappolata nelle trame e sotto la minaccia costante degli uomini che la circondano: padri, fratelli, fidanzati, mariti, figli, tutti con più potere, tutti con un più o meno latente desiderio di possesso e dominio.

Le atmosfere di questo romanzo sembrano anch’esse quasi fisiche, e questo è un altro punto di forza. Esse mutano con l’avanzare della vita di Rebecca e le strane e diversissime circostanze in cui si ritrova. Ci sono momenti cupissimi nell’infanzia della protagonista, in cui sembra emergere un’atmosfera simile a quella di alcuni romanzi di Thomas Hardy, come Giuda l’oscuro. In altri momenti, l’autrice riesce a creare la sensazione di una pastorale americana, più vicina a quella dei romanzi di Philip Roth. In altri ancora, emerge l’America apparentemente leggera e decisamente decadente di Francis Scott Fitzgerald. Sono i cambiamenti di una nazione e di una vita, resi con forza e vitalità, ognuno di essi vivido frammento di una narrativa che non cede alla tentazione di attribuire una direzione o un significato a ciò che, più che storia, è solo cronaca.