Non c’è alcun dubbio che Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) sia stato il capostipite di quei fatidici dublinesi che tanto prestigio hanno apportato alla loro cultura nella letteratura internazionale: da Oscar Wilde a Bram Stoker, da W.B. Yeats a James Joyce, per non nominare che i più noti. Limitandoci solo al campo che gli è più caratteristico, quello della narrativa fantastica, l’importanza del gentleman dal nome ugonotto è paragonabile, per la vastità e la profondità dell’innovazione creativa e dell’influenza sui posteri, unicamente a quella di Edgar Allan Poe, statunitense ma, per chi non lo sapesse, anche lui di ascendenza irlandese. È per esempio Le Fanu il primo che utilizza il folklore della sua terra e i personaggi mitici che ne fanno parte, il “Piccolo Popolo”, per intessere storie di suspense e brivido – non trascurando però una ricca dose di umorismo, per quanto nero – soprattutto nei resoconti di padre Purcell, l’ecclesiastico di campagna, partorito dalla sua fantasia, che raccoglie e colleziona i casi più inquietanti in cui, direttamente o indirettamente, ha avuto a che fare col soprannaturale: senza questo florilegio di storie, il gallese Arthur Machen, alla fine del secolo, non avrebbe probabilmente saputo sviluppare così bene quel rinnovamento tematico che non si chiamava ancora folkhorror e che dal suo Il Gran Dio Pan (1890) in poi, condurrà fino all’orrore cosmico di Lovecraft e oltre, fino a certo cinema contemporaneo tormentosamente nostalgico di culti pagani e di antichi dei, da The Wicker Man a Midsommar.
Ugualmente è Le Fanu a inventare il primo “detective dell’occulto”, quel Martin Hesselius che appare nella raccolta In a Glass Darkly (1872), dando la stura, dalla più tarda epoca vittoriana in avanti, a tutta una genia di Sherlock Holmes esoterici, dal Thomas Carnacki di William Hope Hodgson, al John Silence di Algernon Blackwood, dal più secolarizzato Gideon Fell di John Dickson Carr, al più pulp Jules de Grandin di Seabury Quinn, dal decadente Principe Zaleski di Matthew Phipps Shiel, fino al più famoso di tutti: Abraham Van Helsing, arcinemico di Dracula in Bram Stoker. E proprio al campo vampirico attiene l’opera forse più importante e feconda sui posteri di Le Fanu: Carmilla, la vampira soffusamente saffica che, assai più seducente dei corrispettivi maschili, innesta la figura della femme fatale – dalla Christabel di Coleridge, a La Belle Dame Sans Merci di Keats – su quella virile (ugualmente connotata da implicazioni velatamente omosessuali) del Vampyre (1819) di Polidori, producendo un contraccolpo geniale che negli anni non finirà mai di generare le più variegate e affascinanti ipostasi: da Olalla (1885) di Robert Louis Stevenson, allo stesso Dracula (1897) di Stoker (le tre mogli vampire che assaltano Jonathan Harker in un particolarmente impegnativo notturno al castello del Conte), fino alla multiforme crestomanzia perturbante del sottogenere cinematografico horror-erotico: da Et mourir de plaisir (1960) di Roger Vadim, alla Trilogia Karnstein della Hammer Films dei primi anni ’70, da Vampyros Lesbos (1971) di Jesùs Franco a La Vampire nue (1969) di Jean Rollin, e così via fino a oggi.
È però similmente indubitabile che l’approccio all’opera di Le Fanu nel nostro paese, sia stato, escludendo rilevanti ma episodiche eccezioni, decisamente approssimativo e confuso. A parte le varie edizioni di Carmilla, di solito più attente e curate, ha regnato in genere una sublime confusione tra le sillogi dei numerosi racconti e romanzi brevi, tutti di notevole qualità e interesse, gettati in pasto a un pubblico onnivoro senza alcun criterio critico o cronologico. Salverei solo le pionieristiche traduzioni di Roberta Rambelli per Avventure di fantasmi, (Garzanti, 1966) – volume a cui quelli della mia generazione sono affezionati, perché lì hanno scoperto l’autore; poi I misteri di padre Purcell, selezione operata dal compianto Giuseppe Lippi per gli Oscar Mondadori nel 1987; le brevi ma cospicue antologie curate da Malcolm Skey per Theoria al principio degli anni ’90; e soprattutto le mai dimenticate edizioni Gargoyle che per pura affezione al genere, pubblicarono, consapevoli di quante copie avrebbero venduto, alcuni fondamentali romanzi brevi: Lo zio Silas. Una storia di Bartram-Haugh (2008) e L’ospite maligno. La stanza al Dragon Volant (2009). Il resto, più o meno, è silenzio o quasi.
Era pertanto senza dubbio necessario un volume come quello brillantemente realizzato da Chiara Meistro e Franco Pezzini, appena uscito per gli Oscar Draghi Mondadori, che rimettesse in ordine seriamente, con un apparato critico rigoroso e una dettagliata classificazione cronologica e bibliografica, la narrativa breve del nostro irlandese. Un lavoro massacrante per un tomo monumentale, quasi 1200 pagine, che offre il panorama più completo e preciso su una rilevante sezione della sterminata opera di Le Fanu. Sono peregrine quindi le immancabili critiche di incompletezza, sollevate da parte di alcuni appassionati (mi permetterei di definirli un po’ maniacali e sicuramente ingenerosi) che rinfacciavano ai curatori l’esclusione di questo o quel racconto o il fatto di aver ripubblicato Carmilla, più volte edito, e dimenticato invece altri testi meno inflazionati (ignorando il bisogno scontato agli occhi del pubblico di un titolo di richiamo, specie trattandosi poi di un autore non certo famoso, al di là di un ristretto gruppo di cultori). Inutile quindi precisare che, dato il volume spropositato del tomo, alcune inevitabili e probabilmente tormentate scelte andassero fatte per rendere il libro pubblicabile agli occhi dell’editore (e acquistabile da parte del lettore). Le scelte sono come sempre discutibili ma vanno accettate come tali: per quanto ci riguarda, confidiamo con totale assegnamento nella passione e nella competenza di Pezzini e Meistro e sappiamo che entrambi potrebbero giustificare esaurientemente – come per altro hanno già fatto in più occasioni – pagina dopo pagina, le ragioni dell’inclusione o dell’esclusione di questo o quel pezzo. Ignorando, come è saggio, ogni sterile e strumentale polemica, posso dunque confermare in piena onestà che questa è – sfido chiunque a dimostrare il contrario – la più esauriente e accurata raccolta narrativa di Joseph Sheridan Le Fanu mai pubblicata nel nostro paese. Ogni autentico studioso o semplice appassionato al fantastico e a quella visione del mondo che oggi, con termine già forse precocemente usurato e abusato, viene definita weird, dovrebbe procurarsela e – impossibile leggersela tutta d’un fiato – centellinarla come un buon vino d’annata.
L’edotto lettore vi troverà, dopo una lunga e competente introduzione storico-biografica e una interessante appendice iconografica (anche in questo caso, chi avrebbe il coraggio di sostenere che si sarebbero dovute includere le immagini citate? Dove trovare lo spazio? Un volume di 3000 pagine? Accontentiamoci delle dettagliatissime indicazioni che ci permettono di ricercarle su internet o altrove), i racconti della prima produzione (1838-1853), noti come I misteri di padre Purcell, seguiti da altri racconti (1847-1853) a questi affini per temi e atmosfera; poi la produzione intermedia (1861-1869); infine l’ultima produzione (1869-1873) con i testi postumi e gli apocrifi. In quest’ultima sezione figurano le storie più apprezzate e famose, come Tè verde, Il demone familiare, Carmilla, ecc., ma il bello di perdersi fra le migliaia di pagine dell’immenso volume consiste proprio nello scoprirne decine di nuove, ignorate e altrettanto appassionanti, ed è proprio nell’abbandono indiscriminato al gusto dell’esplorazione che risiede il fascino principale di un libro come questo, in cui, come dichiara Le Fanu, «I sogni passano attraverso i muri di pietra, illuminano le stanze più buie e gettano le tenebre in quelle illuminate, e i loro personaggi entrano ed escono ovunque a loro piacimento, ridendosela di tutti i lucchetti».