Il titolo di questa breve nota di lettura può sembrare, a prima vista, una banalità. Non lo è di certo per José Luís Cancho e per i suoi lettori, che arrivano a leggere questa dichiarazione a poche righe dalla conclusione de I rifugi della memoria, il primo libro dello scrittore spagnolo a essere tradotto in Italia, per meritoria scelta della casa editrice Arkadia, nonché per mano degli eccellenti traduttori Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani.
Ancora a poche righe dalla fine del libro, infatti, José Luís Cancho si chiede “se tutti i ricordi, completissimi o parziali” contenuti nelle pagine immediatamente precedenti “non sembrino un ‘coccodrillo’ o un necrologio, invece di un testo dove è rispecchiata una vita”. Sarebbe una sconfitta, da misurarsi non tanto rispetto al genere adottato dallo scrittore spagnolo per questo breve ma intenso libro (a cavallo tra l’autobiografia e l’autofiction, come ricorda un altro notevole autore spagnolo, Andrés Barba, nell’introduzione), quanto rispetto alla dichiarazione di poetica con il quale si aprono I rifugi della memoria: “Il mio proposito è scrivere dal punto di vista di un morto”.
A conforto di questa posizione, la costellazione di autori che Cancho, nel corso del libro, cita o prende a riferimento esplicito – Samuel Beckett, Thomas Bernhard, Paul Celan, Osep Mandel’stam, su tutti, ma anche autori molto diversi da quelli appena menzionati, come Christian Bobin o Gay Talese – è già di per sé illuminante, ma è altrettanto importante anche la sua dichiarazione immediatamente successiva: “In almeno un’occasione lo sono stato: morto”.
Il riferimento è al periodo giovanile di militanza antifranchista dell’autore, costatogli la detenzione e anche un volo dalle finestre del terzo piano del commissariato di Valladolid, la mattina del 18 gennaio 1974. Sull’episodio – che ricorda da vicino altri episodi di defenestrazioni dai commissariati, in altre nazioni e circostanze, Italia compresa – Cancho non vuole ritornare con il risentimento o la volontà di vendetta del sopravvissuto: la rievocazione serve, soprattutto, a introdurre più compiutamente il suo successivo itinerario biografico e di scrittura. Un percorso fortemente nomadico, mai soddisfatto né compiaciuto, che attraversa la militanza, l’insegnamento scolastico, l’attività letteraria o i viaggi in Sudamerica senza mai trovare un approdo sicuro e definitivo. La ragione di questa instabilità geografica, politica e affettiva sta nel rifiuto nella “logica del sacrificio” – come la definisce lo stesso autore – richiesto dalla militanza o dal lavoro. Un rifiuto assai peculiare, poiché è dettato, in prima battuta, da una grande consapevolezza, e insieme da una grande disillusione, a livello politico, ma anche da un sentimento, ancor più profondo, che deriva dall’amore per la vita e, allo stesso tempo, dalla “disperazione della vita” – sempre per stare alle parole dell’autore.
Nessuna adesione euforica, dunque, al clima post-franchista, alla culla di quella “movida” recentemente assurta agli onori della cronaca italiana con valenze del tutto diverse, totalmente decontestualizzate e intrinsecamente paternaliste. Non vi è nemmeno una qualche possibilità di liberazione, per Cancho, in un itinerario stringente, quasi asfittico, pur nella sua libertà di movimento, che conduce alla letteratura soltanto come extrema ratio, e cioè per il recupero di quel tempo di vita costantemente alienato dalle circostanze: ”Mi sono fatto scrittore, o per meglio dire mi sono lasciato diventare scrittore per poter disporre di un tempo puro, sganciato da qualunque occupazione”, ha scritto Christian Bobin, e Cancho non può che appropriarsi di queste parole.
I rifugi della memoria, in fondo, non è altro che la storia – in bilico tra autofiction e autobiografia, ma anche tra narrazione in prima persona e accessi aforistici, secondo una miscela stilistica dal buon impatto – di un apprendistato alla letteratura condotto nel modo più feroce e onesto possibile, cosa che ne fa senza dubbio un testo necessario e prezioso per molti lettori, e anche, certamente, per chi non abbia ancora letto un romanzo di José Luís Cancho.