Il volume pubblicato da Adelphi a cura di Tommaso Scarano documenta sette conferenze tenutesi a Buenos Aires nell’estate 1977, da cui emerge l’ampiezza di letture e riflessioni del grande “Nobel mancato”, ma anche la sua capacità di intrattenere l’uditorio con affabilità e ricchezza di riferimenti letterari e aneddoti personali. Quello che emerge, però, proprio in virtù della natura rapsodica e orale degli incontri, è la capacità di entrare con leggerezza nelle profondità del testo e di intessere collegamenti inaspettati. Così, gli spunti della prima conferenza, su La Divina Commedia, si concentrano soprattutto sulla “delicatezza” di Dante nel delineare, tramite versi di straordinaria potenza visiva e densità, caratteristiche che oggi definiremmo psicologiche dei personaggi. L’incubo, tema della seconda conferenza, spazia fra infiniti spunti e citazioni, con la domanda provocatoria del minnesranger Walther von der Vogelweide: “la mia vita l’ho sognata o è stata reale?”. Il punto più alto, comunque, ci sembra sia la definizione del sogno come “l’esperienza estetica più antica”.
La letteratura come piacere, anzi come “intrattenimento infinito” è il tema della terza conferenza – Le Mille e una Notte – di cui Borges ripercorre la genesi e la storia. Il Buddismo è al centro della quarta serata, che Borges affronta da un punto di vista né prettamente storico né strettamente confessionale, per sottolineare soprattutto il fascino di una “religione” non dogmatica.
Di Poesia parla la quinta conferenza, in cui viene discusso il fascino delle parole, dell’aura di connotazione e libertà interpretativa che definisce i testi della grande poesia. Anche qui, una piccola perla lasciata agli ascoltatori, quando Borges ricorda che “in Oriente, in genere, la letteratura e la filosofia non si studiano nel loro svolgimento storico.” Viene da pensare all’affanno di tanti poeti odierni per essere inclusi nelle minime antologie che si pubblicano con ridicola frequenza.
La Cabbala (sesto incontro) dimostra ancora una volta l’ampiezza dei riferimenti, mentre in chiusura Borges affronta un tema che lo tocca da vicino, quella cecità contro cui combatte da anni e che per lui è stata uno sprone, ad esempio, a studiare l’anglosassone e a comporre poesia. In questo, si parva licet, si sente vicino a Omero, Milton, Joyce. Anche qui splende una perla, in una frase lapidaria da mandare a memoria: “Lo scrittore vive il compito di essere poeta”. “Essere poeta”, dice Borges, e non “scrivere poesie”: vivere e vedere il mondo, sapere cosa guardare (e cosa dire, e come). Anche nella cecità.