Jorge Fernández Díaz, importante giornalista e scrittore argentino, ripercorre in questo mémoire dal sapore dolceamaro la storia della sua famiglia a partire dagli anni Quaranta, quando in Spagna, a guerra civile appena conclusa, una contadina asturiana stremata dalle fatiche e dalle incertezze della vita quotidiana decide di affidare la figlia quindicenne a degli zii oltreoceano, e la imbarca su un piroscafo per Buenos Aires.
Ha così inizio l’avventura di Carmen, la mamà a cui lo scrittore dedica un libro che è una lunga lettera d’amore da parte di un figlio che, diventato adulto, non vuole dimenticare il groviglio di tenerezza, povertà, orgoglio e nostalgia in cui è cresciuto. I capitoli dell’opera portano i nomi dei personaggi, quasi tutti femminili, che con le loro vite raccontano un destino comune a chi, in passato come oggi, in condizioni economiche sfavorevoli o più vantaggiose, abbia scelto di lasciare il proprio paese per ricominciare altrove: un destino fatto di possibilità, ma anche di paura, di pregiudizi, di abbandono e solitudine.
Mamà racconta di radici impossibili da recidere e di ali che faticano a spiccare il volo e, attraverso le singole e spesso dolorose esistenze dei membri della propria famiglia, l’autore narra una storia molto più ampia di migrazione ed esilio. Con un ritmo altalenante e melodico che ricorda quello delle antiche tradizioni orali, a metà strada tra mitologia e favola, Díaz ricostruisce un mondo pittoresco e crudo, in cui la sopravvivenza era un valore e la miseria una colpa da lavare via.
Carmen, che quando arriva nel quartiere di Palermo, a Buenos Aires, i segni della miseria li ha letteralmente incisi sul proprio corpo, vivrà tutta la vita con una sensazione di vuoto, una nostalgia romantica e corrosiva nei confronti di Almurfe, il paese d’origine da cui non si spiegherà mai veramente perché la madre avesse deciso di allontanarla – perché proprio lei e non uno dei fratelli? Il sentimento contrastante di essere la prescelta per una vita migliore e al contempo l’unica abbandonata a un destino incerto non la lascerà mai, e Carmen continuerà a sognare il ritorno in patria, un ritorno che l’avrebbe fatta diventare finalmente sé stessa: il dolore più profondo per chi sente di non vivere nel luogo che gli appartiene sembra quello, ancora più cupo della violenza, più intenso dei soprusi, di sentire di aver perso, insieme alla propria casa, anche la propria identità.
Un sentimento, quello dell’estraneità a sé stessi, che proverà in seguito anche l’autore nel momento in cui deciderà di trasferirsi per lavoro in Patagonia. Anni dopo, una volta rientrato in Palermo, riconoscerà dentro di sé la difficoltà di fare pace con le diverse personalità che compongono quello che chiamiamo il nostro io, così come con i diversi luoghi in cui esploriamo nuove possibilità di esistenza: “Quando ritorniamo in patria smettiamo di essere ologrammi e ci ritroviamo a essere persone nuove, in carne e ossa. Ricostruiamo legami a partire dalla fotografia inoffensiva di ciò che siamo stati e camminiamo adagio verso la verità affilata e rischiosa di ciò che siamo adesso. Infine riconosciamo che ciascuno è, nello stesso momento, lo stesso di sempre e un perfetto estraneo.”
Mamà è una storia di lotta, di rabbia, di forza e accettazione personali, ma è anche una storia politica che racconta quale impatto devastante possano avere sulla vita dei cittadini le decisioni dei governi. Quel che resta sono vite sospese, a cui il dolore non impedirà tuttavia di lottare, faticosamente ogni giorno, per un mondo migliore. Come Carmen, che continuerà a infervorarsi per difendere ciò in cui crede: “Qualcuno deve fare qualcosa.” Dirà, a proposito di un aumento della tassazione ma riassumendo in poche parole il senso di innumerevoli battaglie lungo il corso della vita: “Non possiamo sempre scusarci di esistere”.