Jonny Costantino / I nuovi paralipomeni

Jonny Costantino, Piressia, Wojtek, pp. 486, euro 20,00 stampa

Lampiridoscalopomachia: si può ricorrere a questo improbabile neologismo greco per descrivere la lotta tra lucciole e talpe inscenata dal testo abnorme e debordante – né romanzo né saggio né raccolta di aforismi, ma tutto questo insieme, e ancora di più – di Jonny Costantino, nuova prova letteraria di un artista altrimenti noto come cineasta e fondatore di riviste (è, ad esempio, una delle colonne portanti del nuovo corso del “Primo amore”).

Il suo nuovo libro – febbricitante e al tempo stesso “di fuoco”, come denuncia il titolo Piressia, echeggiando il precedente Mal di fuoco (Effigie, 2016) – è infatti percorso dalla lotta senza esclusioni di colpi tra queste due specie, tra le quali Costantino, con gesto pasoliniano, esprime la propria preferenza e scelta di campo per le lucciole, davanti al tentativo golpista delle talpe (e quindi “talpista”, per stare al passo delle invenzioni linguistiche più disparate che costellano il testo). Costantino, in realtà, sembra incline a scrivere, più che altro, i paralipomeni di tale battaglia epica, secondo il modello leopardiano adottato nei confronti della Batracomiomachia greca: se l’intento è similmente parodico-satirico, l’esito devia dall’interpretazione politica attribuita all’opera del Grande Recanatese e si concentra invece – con un atteggiamento inevitabilmente più serioso – sulla “pirosofia”.

Una filosofia di fuoco, quest’ultima, difesa a spada tratta, a costo della repressione e della mutilazione fisica che l’autore si immagina di aver subìto, con salto distopico, in un futuro 2044. Con essa si indica una dedizione integrale alla scrittura e all’arte, fino a renderle indistinguibili dalla vita – Costantino propone il termine, sempre di suo conio, di “vitarte” – ma senza perdere di vista l’esito formale, come si legge a un certo punto, con una pseudo-tautologia: «Il fuoco, se è vero fuoco, è come lo stile, se è vero stile». La “pirosofia” si nutre di una visione autentica – quale altro concetto poteva fungere da cardine, nella ricerca di uno scrittore che è anche cineasta? – per la quale non sono attrezzati tanto i “professionisti” dell’arte, quanto i “veri autori”. In questo senso, uno degli ostacoli più chiari che può incontrare tale visione è la prosopagnosia, quella patologia cognitivo-percettiva che rende difficile identificare i volti delle persone e che è stata recentemente generalizzata e acuita dall’uso delle mascherine contro la diffusione del Covid e la correlata epidemia di quello che l’autore – senza allinearsi del tutto alla polarizzazione, per molti versi posticcia ed essa stessa ideologica, tra “pro-vax” e “no-vax” – definisce “Fobovirus”», o virus della paura.

Tornando alla “pirosofia”, tra i tanti esponenti citati nelle pagine infuocate e non di rado deliranti – nel senso, innanzitutto, di qualcosa che esce continuamente dal solco formale (ma anche morale, letterario, culturale, politico, etc.) – spiccano Emily Dickinson, Franz Kafka e Billie Holiday. Benché il personaggio di Jonny Costantino, nel libro, abbia tonalità più herzoghiane: Il crepuscolo del mondo è rievocato con chiaro affetto in queste righe: «Non vivresti in questo mondo se non sapessi queste e altre cose, eccetto tu non sia come uno di quei soldati giapponesi che per 20 anni hanno continuato a combattere da soli in qualche isolotto sperduto, rifiutandosi di accettare che la Seconda Guerra Mondiale fosse finita e con essa l’Impero Nipponico». Dickinson, Kafka e Holiday si prendono la scena per centinaia di pagine, secondo percorsi interpretativi che vanno dalla filologia alla numerologia, da una critica autoriale a tratti convincente, a tratti un po’ frusta – quale è inevitabilmente correlata a una simile insistenza sulla “vitarte” – alla ricerca d’archivio, in particolar modo sui dagherrotipi e le fotografie degli autori convocati nel testo.

Lasciando a chi vorrà immergersi in Piressia la perlustrazione e il giudizio su questi ulteriori paralipomeni istituiti da Costantino, si può comunque notare come questi derivino, almeno in parte, da uno scritto del 2010 di Antonio Moresco – chiaramente eletto da Costantino a proprio nume tutelare – intitolato “La più grande poetessa d’America” e dedicato alla possibile négritude, o discendenza mista, di Emily Dickinson.

Qui non seguiremo nemmeno questa pista letteraria, ma sembra opportuno ricordare come Costantino snoccioli molti nomi di sodali tanto veri quanto immaginari nel testo, restando quindi nei limiti, se non dell’autoreferenzialità, dell’autocitazione. Quest’ultima risuona, positivamente, come assunzione di responsabilità nei confronti della “pirosofia”, ma crea anche un continuo cortocircuito tra il piano del dibattito letterario o culturale per piccole cerchie – oltre allo scritto di Moresco, converrà ricordare che anche la posizione sulla continuità tra Coronavirus e Fobovirus deriva da un articolo pubblicato da Costantino nel 2020 su “Primo amore” – e la già citata elaborazione distopica. Ne deriva, sul piano stilistico, un’oscillazione tra una postura variamente, ma sempre dichiaratamente, outrée  (un altro esempio: «scrivo per i morti gloriosi, per i viventi cazzuti e per le viventi vulvate, tra le cui formazioni t’includo, nonché per i rivoltosi nascituri) – e una certa difesa preventiva, a dir la verità più sporadica, che rischia di far passare per “talpista” qualsiasi critica al testo della lucciola-Costantino. Del resto anche gli affondi senza rete, o le accensioni del fuoco, hanno un sottofondo moralista, come si può leggere, talora, in passaggi come questo: «La Prostituzione Assistita è lo status della contemporaneità».

Beninteso, la miscela resta esplosiva, soprattutto quando la miccia resta esogena; succede, ad esempio, quando, sulla paura, si cita Il silenzio (2021) di Don De Lillo: «La vita a volte può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura». Più ancora del “Fobovirus”, è questo corpo a corpo con la paura, alla ricerca del desiderio perduto, che anima le pagine di Costantino. Ed è questa paura a creare lo spiraglio distopico cui si è già accennato e che avrebbe meritato forse più spazio, nella costruzione pur debordante del testo.

Peraltro, si tratta di una distopia che non è legata soltanto al ventennio che intercorrerà tra il 2024 e il 2044, ma include eventi disastrosi e inauditi già in questi mesi di settembre e ottobre 2024: sembrerebbe un azzardo, questo, per un libro che è uscito a luglio 2024, per la facile e immediata verificabilità del fatto che tale torsione distopica non si è avverata… Ma il golpe “talpista” è più subdolo, e nell’invisibilità e in un clima di generalizzato conformismo culturale, qualcosa di simile alla lampiridoscalopomachia potrebbe essere già in atto e riguardarci, com’è successo con l’autore di Piressia, molto da vicino.