A sei anni dall’ultima uscita, Purity, e a venti dalle Correzioni, l’opera che lo aveva consacrato come il maestro della narrazione delle contraddizioni d’oltreoceano, Jonathan Franzen è tornato, e con lui il grande romanzo americano. Crossroads ci cala nuovamente nelle viscere di una famiglia, gli Hildebrandt, e ci trasporta agli inizi degli anni Settanta, compiendo così una scelta significativa sia da un punto di vista emozionale che stilistico: accanto all’energia, agli ideali, alla voglia di guardare avanti che quel particolare momento storico rappresenta, aleggia una sorta di resistenza al futuro, un nostalgico adagiarsi in un passato che nel ricordo appare confortevole. Un inconsapevole, irrazionale attaccamento a un mondo ormai scomparso, perfettamente impersonato dal protagonista Russ – che per tutto il romanzo tenterà di svecchiarsi, con esiti tanto drammatici quanto sottilmente ironici – e altrettanto perfettamente reso dall’impianto iper-classico dell’opera. Con Crossroads, il vecchio narratore onnisciente della grande tradizione ottocentesca rientra in campo e conduce il gioco, lasciando il lettore contemporaneo quasi spiazzato da tanta scrupolosa conoscenza, ma come bambini lungo un sentiero impervio e tuttavia affascinante ci lasciamo guidare dalla mano esperta di cui ormai ci fidiamo; e facciamo bene, perché Franzen non delude, neanche stavolta.
La storia si svolge in un lasso di tempo ristretto, tra il Natale 1971 e la Pasqua successiva, ma che risulta dilatato a dismisura da una narrazione che punta a vivisezionare la vita emotiva dei membri della famiglia Hildebrandt, residente nel piccolo centro di New Prospect di cui Russ, il capofamiglia, è il pastore. La moglie Marion, forse il personaggio più complesso e interessante dell’opera, oscilla tra un oscuro e doloroso passato e un presente di rinuncia; Clem, il primogenito, orgoglio dei genitori, sfida lo sbandierato pacifismo del padre decidendo di arruolarsi in Vietnam; Becky, la bella e affascinante Becky, reginetta della scuola, vive in bilico tra superficialità e un profondo desiderio di amore; Perry, geniale e inquieto, sembra aver ereditato un gene che lo porterà alla malattia mentale e alla droga; Judson, il piccolo di famiglia, cresce a caccia dell’affetto dei genitori e dei fratelli maggiori.
Sopra le loro esistenze si erge minacciosa la legge morale – a seconda delle interpretazioni e dei personaggi: Dio, la coerenza, i principi etici, la giustizia sociale – che, invece di rappresentare un faro nel mare in tempesta delle tentazioni, incombe come l’ombra di un giudice severo a cui è impossibile sfuggire. A fare da specchio e da amplificatore all’intrico dei sentimenti di ciascun membro della famiglia, c’è il gruppo religioso Crossroads, guidato dal carismatico e popolare Ambrose, eterno rivale di Russ.
Attraverso un linguaggio al contempo diretto e tortuoso che spiazza, rapisce, allontana e poi riprende come un magnete, Franzen scrive un’opera monumentale, un corposo romanzo “puro” che inevitabilmente spicca nel panorama letterario contemporaneo, sempre più costellato da ibridi – i romanzi-saggi, i romanzi-memoir, i romanzi-biografie.
Se dunque l’impalcatura di Crossroad è classica e tradizionale, il suo contenuto non è ugualmente rassicurante: accade infatti che quest’opera minuziosa di costruzione, eseguita metodicamente mattone dopo mattone con l’intento di suscitare le più grandiose aspettative, si risolva al contrario in un fragoroso crollo. Il crollo della società americana, il crollo dell’individuo inteso come centro del proprio microcosmo, il crollo degli ideali e dei valori che hanno sostenuto le generazioni passate, il crollo dell’idea stessa della possibilità di una spiritualità che non sia superficiale o posticcia.
Cosa resta di queste macerie? Franzen, dopo oltre seicento pagine, ci tiene con il fiato sospeso – non resta che aspettare il secondo volume della preannunciata trilogia.