Il 5 giugno Jon Fosse è venuto a Milano, ospite della Milanesiana, il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi. Ha compiuto 25 anni, questa bella manifestazione culturale, e festeggiare l’anniversario con il premio Nobel dello scorso anno ha fatto felici tutti. Fosse è salito sul palco del Teatro Grassi con il suo passo calmo e un po’ impacciato, l’abito nero e i capelli con la codina grigia, poteva essere un orchestrale, un attore, qualcuno che si immerge in un ruolo per nascondere se stesso. Del resto il tema della Milanesiana di quest’anno è proprio la timidezza, e che Fosse sia un timido è più che evidente. Si vedeva che sebbene fosse felice di essere stato invitato e di essere lì, sarebbe stato più felice di essere a casa sua a scrivere. L’ha intervistato un altro timido, Paolo Giordano, il cui garbo e la cui voce, soffice e con la “erre” leggermente arrotata, erano perfettamente adatte alla circostanza. Giordano ha letto un suo articolo in cui raccontava come, una volta cominciato a leggere Fosse, non avrebbe voluto fare altro. Al punto di non voler neppure andare a vedere la mostra di Rothko che si teneva a Parigi nei giorni in cui lui era lì, a prepararsi per l’intervista che avrebbe fatto a Oslo, per il “Corriere della Sera”.
Rothko fa da punto di partenza per la conversazione tra i due scrittori, perché Fosse quella mostra l’ha vista, anche se a Vienna e non a Parigi. Rothko su cui entrambi concordano dicendo che i suoi quadri parlano una lingua che non si può tradurre e non si può scrivere o dire, ma che è nondimeno chiara e inequivocabile. E mi sono ritrovata, in entrambe queste esperienze. Adoro Rothko e di fronte ai suoi quadri sono in ascolto e senza parole. L’anno scorso, dopo che Fosse ha vinto il Nobel per la letteratura, ho letto la Settologia (sono ancora in attesa del terzo volume, che per fortuna arriverà ad ottobre) e non avrei mai voluto smettere.
La chiacchierata tra i due è stata pacata eppure intensa, serena, quasi fossero dei vecchi amici che si siedono al fresco, riposano e commentano quello che fanno. Parlano del fare lo scrittore come un mestiere, per il quale puoi avere più o meno talento, ma che fai perché lo ami e ti sembra l’unica cosa che sai e potresti fare. Parlano del perché è l’unica cosa che vorresti fare. Per Fosse la scrittura è sì una necessità, ma è soprattutto un dono. C’è una dimensione sacra, nella scrittura, che va insieme e oltre la dimensione artigianale, e che coinvolge anche la scrittura per il teatro. Una dimensione eterea eppure profondamente toccante.
Poco prima di questo evento è uscito Un bagliore, una novella, un romanzo breve. Una storia apparentemente piccola che racchiude l’universo e l’universalità dell’esperienza umana. Un uomo che ha guidato senza meta fino a un bosco, la macchina si è bloccata nel fango, l’uomo è uscito ed è entrato nel bosco, una “selva oscura” chiaramente dantesca (Fosse ha confermato la sua conoscenza e il suo amore per Dante). E mentre scende la notte e nevica e non si vedono case o strade all’orizzonte, e l’uomo non ha un’idea di che direzione prendere, in questo disorientamento un bagliore illumina il buio, una luce bianca senza forma ma brillantissima e pura. Poi si materializzano i genitori dell’uomo, e a un certo punto il silenzio, il silenzio del bosco ammantato di neve, il silenzio della notte, il silenzio del bosco, il silenzio parla. Non è una voce che parla a tutti, è una voce che parla singolarmente, all’uomo del racconto e a ognuno di noi. Come se addentrandoci profondamente nella “selva oscura”, che da sempre rappresenta il nostro mondo interiore, potessimo arrivare a conoscerci. Come se abbandonandoci all’oscurità, lasciando indietro paure e pregiudizi, potessimo finalmente incontrare parti di noi che non sapevamo di avere. Come se affrontando un cammino di cui non sappiamo l’arrivo potessimo trovare dentro di noi ombre ma anche bagliori, cupezze ma anche luminosità. E quel disorientamento così familiare, anche se spesso non ne siamo consapevoli, diventa un’occasione di scoperta, di conoscenza.
Quella scrittura leggera e danzante, quelle ripetizioni che danno il ritmo e il tono della lettura, quell’assenza di nomi e dettagli che purificano e semplificano le esperienze e gli accadimenti, quell’incanto che avevo provato nella lettura di Settologia, ci sono ancora, ci sono anche qui. Sono il modo e il mondo di Fosse, sono la sua luce, che non è solo un bagliore ma un raggio sottile e nitido che illumina la nostra anima e ci aiuta a fare un altro passo nella nostra personale selva oscura, a lasciarci andare allo sconosciuto, perché è solo così che ci si può avvicinare all’essenza del nostro vivere. Forse non la raggiungeremo mai, quell’essenza. Forse resterà sempre e soltanto un bagliore. Ma quanto ci avrà arricchito, e addolcito, averlo visto anche solo per un attimo.