Mi ha sempre affascinato la ripetitività. La musica di Philip Glass. Il lavoro a maglia. Camminare, un passo dopo l’altro, passi uguali, regolari. Da bambini, piaceva non solo a me che ci raccontassero la stessa storia con le stesse parole e con la stessa intonazione infinite volte. C’è una quiete, nella ripetizione costante e incessante, che ci mette finalmente al riparo dall’eccesso di stimoli della vita e dall’incertezza e mutevolezza del nostro destino. E quella qualità ipnotica che la ripetitività porta con sé è come un riposo, desiderato e finalmente concesso.
La ripetizione è una delle caratteristiche fondanti del magnifico romanzo Settologia, di Jon Fosse, diviso in 3 volumi nell’edizione italiana. Ho letto i primi due, L’altro nome e Io è un altro, che raccolgono 5 dei 7 volumi totali, usciti rispettivamente l’anno scorso e la scorsa settimana. Del terzo aspetto la traduzione.
Anch’io non conoscevo Jon Fosse, vincitore del premio Nobel 2023 per la Letteratura. O meglio, avevo letto il suo nome nella short list del Booker Prize 2022, ma poi l’avevo rapidamente dimenticato. Non conoscevo la sua opera di drammaturgo e non sapevo che alcuni libri erano stati tradotti e pubblicati da La nave di Teseo. Ma non mi sono sentita sconvolta né tantomeno offesa nel vedere ancora una volta il premio Nobel attribuito a un autore sconosciuto al grande pubblico dei lettori. Anzi sono stata contenta, finalmente potevo scoprire qualcosa di nuovo, e magari sarebbe pure stata una felice scoperta.
Come in effetti è avvenuto. E se è vero che i premi sono dei riconoscimenti a un lavoro magari compiuto in silenzio, tenacemente e magari persino sotterraneamente, da uno scrittore, è anche vero che per le persone normali, anche attente, anche curiose, anche consapevoli, i premi sono un modo per incontrare un pensatore, una lettura, una teoria, una storia, insomma una o più delle tante tantissime cose che non si conoscono. Del resto ho già detto che l’ignoranza è inevitabile e solo parzialmente colmabile. Ma quando colmabile lo è, come nel caso di Fosse, la soddisfazione è tanta.
È pura meraviglia, quella che si prova leggendo Jon Fosse. Il suo modo di raccontare, il suo modo di scrivere ricorda l’acqua, di cui non a caso siamo composti e in cui ci siamo trasformati da embrioni in esseri umani. E poi immediatamente, da come apriamo la pagina, quel flusso, quello stream si trasforma in immagini. Così che Asle, protagonista del romanzo, con la sua coda grigia fermata da un elastico nero e la borsa di cuoio a tracolla, oppure Åsleik in tuta da sci e la sua barba non curata, o la cittadina di Bjørgvin con i suoi vicoli e il molo sul fiordo, o ancora quel paesaggio di buio luminoso che è l’inverno del nord, ci appaiono nitidi davanti agli occhi. La luce e il buio sono tra i temi portanti di questa narrazione.
Asle, che è pittore, guarda i suoi quadri al buio ed è solo al buio che riesce a capire se il quadro è finito e se riesce a dire davvero quello che deve dire, quello che Asle stesso deve dire ma che non può essere detto con le parole. Il buio è questa ambigua assenza di luce, assenza di sé e delle persone che ci sono care e necessarie. Ma è anche l’immaginazione e la nostra capacità di vedere, con il buio, le persone care e forse Dio. E Fosse fa dire, o meglio pensare, ad Asle: “È assolutamente vero che è soltanto quando le cose si fanno più buie e più nere, che si vede la luce”.
Quello di Fosse è un racconto che scivola come fa la nostra mente quando pensiamo, sia che ai pensieri ci lasciamo andare sia che cerchiamo di imbrigliarli. I pensieri di Asle vanno avanti e indietro, ora sono limpidi e chiari ora sono audaci e confusi. Ora sono preghiere e ora sono ricordi. Ora sono dolori, antichi ma ancora brucianti, ora sono struggimenti e tenerezze. Ora sono mancanze e ora presenze. Ora sono decisioni e ora indecisioni. E si ripetono anche le conversazioni, come fanno le persone che si conoscono da tanto, persone che non si sarebbero scelte ma si ritrovano vicine, che non hanno nulla di nuovo da dirsi anche se di qualcosa bisogna pur parlare. Si ripete il tempo, che non procede con ordine lineare perché dentro di noi passato presente e futuro non sono incolonnati con precisione né seguono linee esatte di continuità, ma si mescolano e sovrappongono.
Questa scrittura lieve e danzante, piena di grazia e di dolcezza, è davvero quanto di più simile alla nostra esperienza di vita pensante e pensata. E addentrandosi così profondamente ma anche così direttamente dentro il suo animo (che in fondo è anche il nostro), Fosse ci porta in un’intimità che umanissima perché fatta di bellezza e cattiveria, di generosità e meschinità, di vicinanza a Dio e impossibilità di raggiungerlo. Il nostro bisogno di spiritualità, il nostro sforzo di capire l’universo e sentircene in qualche modo partecipi, la nostra ricerca di un senso o di una spiegazione, sono lì intatti nelle pagine di Fosse, tra le parole e quell’assenza di punteggiatura tranne le virgole. Che d’altro canto nella vita punteggiatura o gli a capo o i paragrafi non esistono.
Chiudere questo libro, anche se al momento solo parzialmente o solo temporaneamente, è stato un dispiacere. Certo la voce di Asle rimane con noi. Almeno per me sta risuonando gentile e sottile e calda mentre ne scrivo. Ci sono libri che stanno con noi per il tempo che li leggiamo e poi vanno nel nostro archivio mentale, da cui forse un giorno li ripescheremo, chissà. Poi ci sono i libri da cui facciamo fatica a staccarci, quasi ci si fossero scritti addosso. I libri di Fosse sono tra questi.
Concludo con questa citazione: “A essere importante non è ciò che viene detto esplicitamente su questo o quello, è altro, è qualcosa che parla in silenzio dentro e dietro le frasi”.