Jon Fosse / Dio, la natura e noi

Jon Fosse, Un nuovo nome, tr. di Margherita Podestà Heir, La nave di Teseo, pp. 240, euro 20,00 stampa, euro 9,99 epub

Asle e Ales sono sempre stati insieme, nel corso di questa Settologia arrivata, con Un nuovo nome, alla sua conclusione. Tecnicamente Asle e Ales non sono sempre stati insieme. Non nell’infanzia e nella prima giovinezza, e neppure per buona parte della vita adulta di Asle. Ales è morta presto, non sappiamo in che circostanze. Ma Asle non ha mai smesso di considerarla sua moglie, non ha mai pensato di voler o poter immaginare un’altra compagna. Dal giorno in cui si sono conosciuti, Asle e Ales si sono sentiti uniti con una certezza quasi religiosa. Anzi con una certezza del tutto religiosa. Dei due, è Ales quella credente. Cattolica. Una religione che ad Asle è praticamente sconosciuta, ma che abbraccia con slancio e in cui trova un senso che non smetterà mai di accompagnarlo, per tutta la sua lunga vita.

La vita intima e personale di Asle, che conosciamo attraverso il flusso ininterrotto dei suoi pensieri, è compenetrata di religione. Presentata e vissuta come un’esperienza individuale e come un baluardo contro le avversità e le difficoltà della vita. Asle prega molto, dice dei lunghi rosari, in latino e nella sua lingua. Quando non riesce a dormire, quando non riesce a dipingere, quando è stanco, quando l’assenza di Ales è irrimediabile, Asle prega. Non prega Dio perché faccia qualcosa per lui, non prega per ottenere qualcosa. Prega per sentirsi presente, per sentirsi vivo, per riempirsi la mente di parole che non siano i suoi pensieri, per svuotare la mente. E forse è davvero questo, la preghiera, una forma di meditazione, una forma di disciplina per la nostra mente disordinata e selvaggia.

Nei due libri finali della Settologia, Asle ripercorre ancora, infinite volte, nella sua testa, il suo bisogno di dipingere e il riconoscimento del suo talento, l’incontro con il gallerista con cui lavorerà tutta la vita, l’altro pittore Asle, che sembra un suo alter ego e che morendo sembra portare via anche lui. Ripercorre i paesaggi invernali, i fiordi ghiacciati, i giardinetti per l’infanzia che si coprono di neve. Ripercorre le case in cui ha abitato. Ripercorre la sua arte, i quadri dipinti e portati in soffitta per non guardarli, i quadri venduti, il desiderio di non dipingere più e la necessità di dipingere per liberarsi di tutte le immagini che, viste una volta, si sono fissate per sempre nella sua mente. Ripercorre l’amicizia con il vicino di casa, Åsleik, di poche parole, con cui ogni tanto condivide un pasto e con cui ha accettato di passare la vigilia di Natale, per la prima volta dopo essere stato invitato anno dopo anno. Andranno a casa di Sorella, a casa di Guro, la sorella di Åsleik, ci andranno in barca, lungo il fiordo gelato, bevendo birra.

Asle ci cattura perché è noi e non è noi. C’è qualcosa di noi nel restare seduti al buio, al freddo, senza trovare la forza di tirarsi su. Stanchi della vita, dei troppi pensieri, delle assenze, delle impossibilità. C’è qualcosa di noi nella ricerca di Dio, di una luce che sia accesa dallo spirito e non dall’elettricità, di un Dio che ci porti verso un senso, non importa se non lo capiamo, basta sentirlo. C’è qualcosa di noi anche nella rinuncia, nell’estremismo della frugalità. Ma Asle non è noi nel minimalismo delle cose in suo possesso, la borsa di cuoio, il cappotto nero, la giacca di velluto nero. Non è noi nella certezza del suo talento, nella semplicità e certezza delle sue scelte. Appartiene a un mondo nordico in cui la natura non appare mai gentile e materna, neppure per sbaglio. La natura è durissima e inarrivabile, potente, distante, minacciosa. Domina il paesaggio di poche case e poche persone.

Asle è a suo agio in quella natura, la riconosce e la rispetta. Non fa fatica a immaginare un Dio né buono né cattivo, semplicemente lontano. Possente e luminoso, indifferente. Mi è sembrato curioso, a tratti, che un Dio come quello venisse avvicinato dalla religione cattolica anziché da quella protestante. Essendo cresciuta in un paese cattolico, sono indifferente al fascino che la liturgia della nostra chiesa esercita nei paesi di cultura protestante. Ma leggendo Jon Fosse, capisco anche come il nostro Dio sia rimasto ultraterreno, misterioso, lontano e inafferrabile, molto più di quello venerato dai protestanti. E capisco anche come le nostre chiese, che a noi sembrano normali e che spesso giudichiamo da un punto di vista puramente estetico (avendone centinaia, di ogni epoca e foggia), possano trasmettere quel senso di solennità, di riverenza, di soggezione, che fa parte del senso della spiritualità e della religione. Con il suo linguaggio semplice e ripetitivo, con la sua assenza di punteggiatura e il passo avvolgente, Fosse ci regala una riflessione sull’umanità e sulla vita, in un volume che è davvero il compimento di un’opera bellissima e grandiosa.

Settologia di Jon Fosse