John Updike appartiene al novero dei grandi scrittori e poeti che hanno impreziosito le lettere statunitensi del secondo Novecento. Autore più che fecondo – in un cinquantennio ha pubblicato ventidue romanzi, tredici raccolte di racconti, dieci di poesie –, noto per la cosiddetta “serie del Coniglio” (il primo volume, Corri, Coniglio apparve nel 1960), per il ciclo che ha come protagonista un personaggio semiautobiografico di nome Bech, e per altri romanzi che affrontano la tematica erotica e matrimoniale, in particolare Coppie del 1968. Updike, noto altresì per il divertissement Le streghe di Eastwick reso celebre dalla versione cinematografica di George Miller con un cast d’eccellenza, è tra i rari scrittori che hanno mantenuto un alto livello qualitativo anche nella maturità, come dimostrano due romanzi ben accolti dalla critica, Villaggi (2004) e Terrorista (2006), da noi apparsi per l’editore Guanda.
Prima di spegnersi alle soglie dei settantasette anni nel 2009, Updike ha dunque avuto la fortuna di godere in vita dell’apprezzamento della propria opera, tanto da conquistare più volte i maggiori riconoscimenti letterari del suo Paese, il Premio Pulitzer, il National Book Award, l’American Book Award, il Premio O. Henry per i racconti brevi, oltre alla ripetuta candidatura al Nobel per la letteratura. I temi da lui prediletti – la classe media borghese e la vita nella provincia americana, l’esplorazione anticonformista delle trasformazioni intervenute in quella società, il desiderio di opporsi al suo vuoto materialismo, la rivisitazione nostalgica della giovinezza perduta –, resi con una scrittura elegantemente cesellata, ravvivata da una raffinata ironia e da una penetrante capacità di scavo psicologico, gli hanno guadagnato il favore della critica e di una considerevole schiera di lettori.
Updike è stato però anche un intellettuale di rilievo – Philip Roth lo definì “il più grande uomo di lettere del nostro tempo” –, e accanto alla produzione narrativa ha portato avanti un’attività saggistica altrettanto intensa, apparsa su alcune delle maggiori riviste letterarie americane, dal New Yorker a Esquire, alla New York Review of Books. Accogliamo quindi con grande interesse il volume pubblicato dall’editore BigSur che presenta una selezione di questi scritti, curato da Giulio D’Antona e con la traduzione di Tommaso Pincio.
Gli articoli raccolti rappresentano una fondamentale controparte per avvicinare criticamente il celebrato narratore: oltre ad aprire la porta su un laboratorio d’intelligenza critica, gettano una luce penetrante sull’universo romanzesco, sulle letture e le fonti d’ispirazione, sui canoni linguistici e utilizzati, sugli amori letterari, le passioni, le idiosincrasie dell’uomo Updike.
Il volume si divide in tre sezioni, dedicate alla scrittura, ai libri e agli scrittori. Gli argomenti affrontati sono dunque specificamente letterari: il futuro del romanzo, l’importanza della narrativa, le motivazioni che spingono a quell’“attività assurda e alquanto egoista chiamata scrittura”, l’immaginazione creativa, il rapporto tra religione e letteratura, l’umorismo, la funzione sociale dell’arte, le dinamiche editoriali.
La sezione iniziale si apre e si chiude con due brevi e spassosissime pièce teatrali con oggetto la narrativa e la stampa. Nel primo dialogo, organizzato da “una speciale divisione della NASA il cui compito è spiegare la civiltà americana a forme di vita aliene”, i protagonisti sono un oscuro letterato originario dell’Indiana e un emissario di Marte: l’incontro finisce in baruffa, col marziano che tenta di divorare l’umano. Nel secondo, gli spiriti di Bill Gates e di Johannes Gutenberg aleggiano sopra la Fiera di Francoforte (“una veglia funebre”), disquisendo sulla “tecnologia ormai obsoleta della stampa” e sulla rivoluzione dell’informatica computazionale, dei computer e della Rete: un dibattito gustosamente ironico, che si conclude con un commovente atto di fede nell’inalienabile umanesimo dell’essere umano.
Di particolare interesse la seconda sezione, che offre molteplici squarci sulla vita dell’autore, acute notazioni sull’industria letteraria e sulla propria opera: un articolo sulla “poetica” da lui adottata nell’attività di recensore, uno sulle sue letture d’infanzia e sui propri libri, e numerose recensioni di romanzi e racconti di autori celebri, tra gli altri Kafka, Sherwood Anderson, Garcìa Marquez, Osvaldo Soriano, Bioy Casares, Thoreau, Kerouac.
La terza parte raccoglie i ricordi degli incontri con altri scrittori, dalle lezioni a Harvard che gli permisero di conoscere “misteriose figure da antologia” quali T.S. Eliot, Sandburg, Frost, Wilder, agli eventi mondani in cui ebbe modo di confrontarsi con Borges, Mailer, Cheever e altri: memorie argute, condite da una vena dissacrante. Vi sono poi riflessioni sulla biografia letteraria e articoli su mostri sacri delle lettere americane (Fitzgerald, Hemingway, T.S. Eliot), coccodrilli per la scomparsa di grandi scrittori (Nabokov, Cheever, Calvino, Carver) e, per concludere, un pezzo delizioso, giocato sulla scissione tra l’individuo e lo scrittore: Io e Updike.
In definitiva, in questa raccolta di saggi risuona lo stesso impeto, la medesima intensità che caratterizza l’opera narrativa di Updike, la passione per il suo mestiere e per la sua vita di uomo di lettere. In essa si compone il ritratto di un intellettuale dall’arguta vis polemica e originalità di critica, di uno scrittore che fu accanito difensore del romanzo come forma d’arte in un momento storico in cui molti ne ridimensionavano fortemente il prestigio e altrettanti ne annunciavano la morte, di un letterato che ha strenuamente difeso l’unicità dell’immaginazione creativa, l’irriducibile potere magico della scrittura, intesa come disciplina di vita e strumento di impegno etico. Del resto, come egli stesso conclude in un articolo dal titolo emblematico, L’importanza della narrativa: “Cosa è importante, se non l’individuo? E quale luogo migliore per conoscere, valutare e apprezzare la dimensione dell’individualità, se non le armoniose bugie della narrativa?”