Henry Bech non esiste, a meno che non lo si tratti come “vero” più di quanto siano veri scrittori come Roth, Vidal, Bellow, Salinger, Mailer e compagnia bella. Autori le cui abitudini, idiosincrasie e amori a tutta birra, come si sa, hanno accompagnato i loro successi letterari. Vantaggi e svantaggi che dall’America oltreoceanica hanno dilagato nelle menti imberbi di milioni di fans europei. Bech è l’autore di un romanzo encomiabile e di svariati insuccessi, e John Updike da par suo ne narra avventure e disavventure, all’insegna di perfidia e comicità, nella serie di racconti qui raccolti integralmente per la prima volta in Italia sotto l’egida di fior fiore di traduttori. Edizione ben condotta da Sur che ha riunito le versioni, ormai lontane nel tempo, di Stefania Bertola e Attilio Veraldi unendole alla cura di Lorenzo Medici per l’ultimo capitolo (Bech at Bay) dedicato da Updike al suo eroe.
Un’impresa che porta l’inventore di Harry Rabbit Angstrom – il famoso Coniglio, creatura che attraversa la società americana per mezzo Novecento e giunto da noi per la prima volta negli anni Settanta – ad allestire un universo “scritto” in cui un “doppio” non casuale narra le proprie peripezie in giro per il mondo partendo proprio da quel luogo men che innocente che era la Russia post-Chruščëv. Nei panni del ricco e grande romanziere ebreo, Bech prende forma tra le mani eccellenti di Updike, capace di grande divertimento nelle epopee letterarie americane del secolo scorso, dove tutti sono contro tutti e la minuzia dei particolari contribuisce all’affresco biografico dell’epoca. Con questo corposo volume si viene a sapere quel che concerne situazioni e vendette fra ebrei e gentili, in un paese dove nemmeno Proust avrebbe potuto far qualcosa di più rispetto a quanto gli autori citati hanno virtuosisticamente scambiato col resto del mondo.
Le cose serie e meno serie della letteratura sono portate in giro da Bech in svariati modi e con risorse oggi quasi del tutto dimenticate, così come Updike ha attraversato con la sua opera (onnivora, se ci pensiamo: romanzi, saggi, poesie) spesso irresistibile e mimetica. Accuratezza sessuale, mondana, e un certo romanticismo, interessarono Arbasino, che a proposito parlò di “una forma di autobiografia”. Vero è che le avventure di Bech si dividono fra politica liberal e riscontri sessuali, con una ricchezza di autentici dettagli in grado di irretire il lettore contemporaneo dotato di un buon naso vintage. Lo stesso individuo che visiona il film di un Novecento a doppia faccia, ogni volta alle prese con la cromatica dotazione americana e le sepolcrali promenade (leggi letterature) europee.
Alter ego, dunque, sembra riduttivo per un personaggio che tiene in sé scrittori oltremodo noti – a cui Updike guarda con occhi scintillanti – e dalle molteplici responsabilità letterarie esplosive tutte riunite in un intero secolo. Come questi accolsero lo humour, sparso senza avarizia nei racconti, può essere argomento di varietà e approcci pettegoli, però sappiamo che il (quasi sempre) catastrofico critico Harold Bloom inserì Updike, non casualmente e non senza effetti, nel suo canone occidentale. La conoscenza perfetta del mondo in cui è inserito lo scrittore di Reading, l’enormità dello stile e una certa spinta mainstream hanno giovato non poco a una carriera che ha avuto dalla sua, e per tre decenni, uno specchio chiamato Henry Bech: e che sapeva tutto.