Le rockstar non viaggiano mai leggere. Il guardaroba in sé ha già un peso specifico: non sta certo dentro un bagaglio a mano. Pensate, per esempio, alle mise siderali e sfavillanti di Ziggy Stardust, stivali inclusi. Aggiungete poi manciate di lustrini, glitter à gogo e… bauli pieni di libri! Una vera e propria biblioteca da viaggio, comprendente ben 1500 volumi, “ordinatamente disposti su piccole mensole”, che David Bowie era solito portare ovunque, in tournée o sul set di un film. Feticci di “un amore per la lettura (…) calcificato in una specie di ossessione quando [Bowie] aveva raggiunto lo status di star mondiale”, racconta il giornalista musicale inglese John O’Connell nell’Introduzione a quello che è, senza alcun dubbio, un libro eccentrico e imperdibile.
All’origine è la lista, rivelata dallo stesso Bowie nel 2013, dei 100 libri “più importanti e influenti”, compagni di viaggi e di vita, presto diventati patrimonio dei fan, tanto da ispirare entusiasti e folti gruppi di lettura: “l’idea di questo volume nasce proprio da quella generosa idea di condivisione” ci informa la Nota dell’Editore. E, a un lustro dalla scomparsa dell’artista, quale miglior cadeau di un dolce naufragare nel suo prismatico scrigno di letture? Da Arancia meccanica di Anthony Burgess a Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson di Lawrence Weschler – ovvero dal primo all’ultimo titolo raccolti nel prezioso Book Club – O’Connell si dipana con sensibile e affabile empatia tra saggi e romanzi (non tutti tradotti in Italia), deviando scientemente da un approccio cronologico tout court per vagare, con maggiore libertà, in quella costellazione mutevole di temi e autori, giocando con echi e assonanze tra canzoni e letteratura, poetica e tranches de vie di un’icona senza tempo. Nel rispetto di una creatività che per Bowie, da Space Oddity (1969) a Black Star (2016), ha sempre significato “aprirsi a ogni possibile influenza. Non soltanto in campo musicale ma – e questa era la sua caratteristica peculiare – in qualunque ambito espressivo che potesse essere utile alla sua visione. (…) A Bowie piaceva leggere, quindi i libri occupavano un ruolo naturale in questo processo”.
Absolute beginner, ad attrarre l’adolescente David Jones, nei primi anni Sessanta, è la Beat Generation e i suoi profeti, amatissimi da Terry, il fratellastro maggiore, il cui ascendente si traduce in un look da mod, nella scoperta di Albert Camus e T.S. Eliot. Sul finire del decennio, occultismo e buddhismo tibetano, la serie TV di fantascienza The Quatermass Experiment e 1984 di George Orwell, insieme al culto precoce per “l’appariscente e androgino” Little Richard, s’innestano in un immaginario già fertile, mentre Awopbopaloobop Alopbamboom: una storia della musica pop (1969) di Nick Cohn assurge a Bibbia del futuro transformer. L’alieno, con la sua corte di spiders from Mars, sarà il primo degli infiniti avatar di Bowie. Affetto da schizofrenia genetica e suicidatosi nel 1985, Terry ne è, dunque, l’ignaro mentore, ma il suo lascito è immenso. L’interesse per gli studi rivoluzionari sulle malattie mentali va di pari passo con la fascinazione per i disadattati, gli outsider, i freaks – come attesta, tra gli altri, il volume Strange People: Unusual Humans Who Have Baffled the World (1961) di Frank Edwards –, con la metamorfosi di Bowie/uomo-cane nella copertina di Diamond Dogs (1974) fino alla sua leggendaria interpretazione teatrale di The Elephant Man nel 1980.
Da Londra a New York, da Berlino a Los Angeles il Duca Bianco, vampiro etereo e insaziabile, si nutrirà di storia dell’arte e pittura, di esoterismo e musica sperimentale, aggiungendo alla sua bizzarra biblioteca un saggio su Francis Bacon e Silenzio di John Cage, Yukio Mishima e Christopher Isherwood, James Baldwin e I vangeli gnostici (1979) di Elaine Pagels. Fedele a quella “visione” di sé e della propria musica, alle metamorfosi evocate, con ludica lievità, dalle illustrazioni di Luis Paadín, cangianti silhouette che, a loro volta, sembrano inseguirsi da un album all’altro. Così come si inseguono, quasi rispecchiandosi, l’androgino Bowie di Station to Station (1991) e Lazarus, l’ultimo dolente avatar: entrambi vestono un completo nero solcato da strisce bianche diagonali. Solo la voce è diversa. Il cieco veggente canta di tempi oscuri. Ora Major Tom è una stella variabile.