David Bowie gran lettore

John O.Connell, Il Book Club di David Bowie. I 100 libri che hanno cambiato la vita di una leggenda, tr. Fabrizio Coppola, Blackie Edizioni, pp. 302, euro 19,90 stamoa

Le rockstar non viaggiano mai leggere. Il guardaroba in sé ha già un peso specifico: non sta certo dentro un bagaglio a mano. Pensate, per esempio, alle mise siderali e sfavillanti di Ziggy Stardust, stivali inclusi. Aggiungete poi manciate di lustrini, glitter à gogo e… bauli pieni di libri! Una vera e propria biblioteca da viaggio, comprendente ben 1500 volumi, “ordinatamente disposti su piccole mensole”, che David Bowie era solito portare ovunque, in tournée o sul set di un film. Feticci di “un amore per la lettura (…) calcificato in una specie di ossessione quando [Bowie] aveva raggiunto lo status di star mondiale”, racconta il giornalista musicale inglese John O’Connell nell’Introduzione a quello che è, senza alcun dubbio, un libro eccentrico e imperdibile.  

All’origine è la lista, rivelata dallo stesso Bowie nel 2013, dei 100 libri “più importanti e influenti”, compagni di viaggi e di vita, presto diventati patrimonio dei fan, tanto da ispirare entusiasti e folti gruppi di lettura: “l’idea di questo volume nasce proprio da quella generosa idea di condivisione” ci informa la Nota dell’Editore. E, a un lustro dalla scomparsa dell’artista, quale miglior cadeau di un dolce naufragare nel suo prismatico scrigno di letture? Da Arancia meccanica di Anthony Burgess a Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson di Lawrence Weschler – ovvero dal primo all’ultimo titolo raccolti nel prezioso Book Club – O’Connell si dipana con sensibile e affabile empatia tra saggi e romanzi (non tutti tradotti in Italia), deviando scientemente da un approccio cronologico tout court per vagare, con maggiore libertà, in quella costellazione mutevole di temi e autori, giocando con echi e assonanze tra canzoni e letteratura,  poetica e tranches de vie di un’icona senza tempo. Nel rispetto di una creatività che per Bowie, da Space Oddity (1969) a Black Star (2016), ha sempre significato “aprirsi a ogni possibile influenza. Non soltanto in campo musicale ma – e questa era la sua caratteristica peculiare – in qualunque ambito espressivo che potesse essere utile alla sua visione. (…) A Bowie piaceva leggere, quindi i libri occupavano un ruolo naturale in questo processo”. 

Absolute beginner, ad attrarre l’adolescente David Jones, nei primi anni Sessanta, è la Beat Generation e i suoi profeti, amatissimi da Terry, il fratellastro maggiore, il cui ascendente si traduce in un look da mod, nella scoperta di Albert Camus e T.S. Eliot. Sul finire del decennio, occultismo e buddhismo tibetano, la serie TV di fantascienza The Quatermass Experiment e 1984 di George Orwell, insieme al culto precoce per “l’appariscente e androgino” Little Richard, s’innestano in un immaginario già fertile, mentre Awopbopaloobop Alopbamboom: una storia della musica pop (1969) di Nick Cohn assurge a Bibbia del futuro transformer. L’alieno, con la sua corte di spiders from Mars, sarà il primo degli infiniti avatar di Bowie. Affetto da schizofrenia genetica e suicidatosi nel 1985, Terry ne è, dunque, l’ignaro mentore, ma il suo lascito è immenso. L’interesse per gli studi rivoluzionari sulle malattie mentali va di pari passo con la fascinazione per i disadattati, gli outsider, i freaks – come attesta, tra gli altri, il volume Strange People: Unusual Humans Who Have Baffled the World (1961) di Frank Edwards –, con la metamorfosi di Bowie/uomo-cane nella copertina di Diamond Dogs (1974) fino alla sua leggendaria interpretazione teatrale di The Elephant Man nel 1980. 

Da Londra a New York, da Berlino a Los Angeles il Duca Bianco, vampiro etereo e insaziabile, si nutrirà di storia dell’arte e pittura, di esoterismo e musica sperimentale, aggiungendo alla sua bizzarra biblioteca un saggio su Francis Bacon e Silenzio di John Cage, Yukio Mishima e Christopher Isherwood, James Baldwin e I vangeli gnostici (1979) di Elaine Pagels. Fedele a quella “visione” di sé e della propria musica, alle metamorfosi evocate, con ludica lievità, dalle illustrazioni di Luis Paadín, cangianti silhouette che, a loro volta, sembrano inseguirsi da un album all’altro. Così come si inseguono, quasi rispecchiandosi, l’androgino Bowie di Station to Station (1991) e Lazarus, l’ultimo dolente avatar: entrambi vestono un completo nero solcato da strisce bianche diagonali. Solo la voce è diversa. Il cieco veggente canta di tempi oscuri. Ora Major Tom è una stella variabile.