John Berger / Rosso Guttuso

John Berger, Guttuso, tr. Maria Nadotti, Sellerio, pp. 231, euro 14,00 stampa

“Ci siamo tutti, ci siamo tutti, ci siamo tutti / Ai funerali di Togliatti”. Nello sfogliare Guttuso di John Berger, non si può fare a meno di tornare a canticchiare una canzone, in particolare: La Giulia bianca di Flavio Giurato (Manuale del cantautore, 2007). Le bandiere che campeggiano nei Funerali di Togliatti di Guttuso, infatti, sono un vero e proprio tripudio di quel colore rosso che, d’altra parte, percorre anche tutta la produzione di Berger – esemplare, a questo proposito, il titolo di una sua antologia di saggi, A Permanent Red (1960) – rappresentando per metonimia il campo della politica senza per questo inficiare, o limitare, il piano della disamina critica. Tuttavia, basta una breve occhiata alle cronologie per vedere come il quadro di Guttuso risalga al 1972, mentre la pubblicazione di Guttuso da parte di Berger è di quindici anni precedente: l’intuizione di Berger ha il sapore di una profezia che trova poi sostanza storica, con il passare del tempo, nella coerenza tanto formale quanto ideologica di entrambi gli autori.

Un processo che vale anche per la parola scritta, come Berger stesso era solito affermare: “certi libri […] sono come i fiumi carsici: scompaiono e scorrono sotterranei per poi riaffiorare altrove, a distanza di tempo”. A riportare queste parole nell’introduzione del libro, condividendole in pieno, è Maria Nadotti, curatrice e traduttrice di molte altre opere bergeriane (il volume comprende anche una nota finale, altrettanto intensa, di Marco Carapezza). E anche la pubblicazione di Sellerio, del resto, nasce da un fenomeno di carsismo, basandosi sul recente ritrovamento del dattiloscritto originale del saggio dedicato al pittore siciliano, fino a questo momento scarsamente reperibile, e solo nell’edizione tedesca del 1957 o in quella sovietica del 1960.

Per un Berger che all’epoca era poco più che trentenne si trattava della prima monografia, un genere di scrittura poi frequentato in modo discontinuo, anche per una certa riottosità a essere definito “critico d’arte” – come si può leggere nella prima pagina di un’altra antologia di saggi recentemente pubblicata in Italia, Ritratti (il Saggiatore, 2018) – e un’ampia distanza da qualsiasi accademismo. D’altra parte, il genere della monografia consente ancora, in questa fase, un’articolazione precisamente strutturata del pensiero – non rigidamente geometrica, né muscolare – per una prospettiva critica di orientamento chiaramente marxista e al tempo stesso, per quanto riguarda più da vicino l’approccio analitico all’arte, debitrice di figure capitali della prima parte del XX secolo europeo come Max Raphael e Bernard Berenson.

È anche grazie a questa formazione che Berger si inserisce in quella “lotta per il realismo” (cui è intitolato un bel saggio di James Hyman, uscito per Yale University Press nel 2001) che attraversa il mondo delle arti, nel Regno Unito, e, più in generale, nella diatriba tra realismo e formalismo che ha animato tutta la cultura europea del secondo dopoguerra: non tanto per esaltare uno dei due poli, quanto per contribuire a darne – dialetticamente, e anche hegelianamente, si potrebbe dire – una possibile sintesi. Guttuso, per molti versi, si presta ad esempio paradigmatico di questo posizionamento.

Non si tratta, tuttavia, di un posizionamento comodo e facile da gestire, all’interno di una battaglia culturale che a tratti diventa onnipervasiva, almeno nei circuiti artistici britannici: per Berger, guardare a Guttuso significa guardare al proprio contesto culturale di primo riferimento attraverso una lente diversa. Lo farà anche nei decenni successivi, raccontando in alcuni suoi romanzi la situazione delle classi subalterne rurali di tutta Europa, e dunque anche del Regno Unito, dal suo rifugio in Alta Savoia. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, invece, la sponda gli è offerta dall’Italia (dove, peraltro, risiedeva stabilmente anche Berenson), con quella sua luce precisa, concreta e materica che, agli occhi di Berger, Guttuso e, in radicale antitesi, Morandi interpretavano e restituivano in modo così evidente.

Come ha già rilevato Alessandro Del Puppo nella recensione di questo volume pubblicata su Doppiozero, si tratta forse di una percezione dell’Italia da outsider, piuttosto chiara nell’approccio a uno degli ultimi quadri di Guttuso censiti nella monografia, La spiaggia (del 1957, appunto): “È l’immagine dell’italiano (e delle italiane) ancora vitali e orgogliosi, sì, ma ora impegnati non a occupare le terre incolte bensì a contendersi un po’ di spazio sulla battigia. Per Berger quel dipinto non poteva che essere una denuncia della vacuità borghese, la demistificazione dell’inganno capitalista del sesso e del tempo libero, e forse aveva ragione, chissà. ‘Nessun romanzo o film riesce a fare esattamente questo’, chiosa infine Berger. Ma a noi resta il sospetto che a quel punto il racconto “dialettico” degli italiani lo stessero facendo i vitelloni di Fellini, gli spiaggiati di Domenica d’agosto di Emmer, i poveri ma belli di Risi, tutti gli altri e tutte le altre”. Da questa prospettiva, l’accostamento di quel quadro alle grandi composizioni géricaultiane, sul quale insiste Berger, sembra più che altro funzionale al tentativo di quest’ultimo di collocare il realista-ma-anche-formalista Guttuso nella Grande Tradizione dell’arte occidentale.

Un tentativo sommessamente canonizzante, e non privo di ragioni; un innamoramento, anche, che durerà ancora per anni. E se in questo si sente la mancanza, in Berger, di quel piglio dialettico che invece è chiaramente evidente in molti dei Ritratti – dove sono frequenti gli accostamenti di saggi scritti in epoche diverse e, quindi, con risultanze critiche variabili, ma sempre dialetticamente informate, da parte dell’autore – ciò non inficia, in generale, la profondità e la qualità dialettica del suo sguardo. In altre parole, se qualcosa è sicuramente cambiato nel tempo, è la considerazione di Berger della situazione economica, politica e culturale italiana: negli anni Cinquanta, Berger scriveva, non senza ragioni, ma forse con una punta di sicumera (poi completamente assente negli scritti successivi, in tutti gli scritti successivi), che in Italia “l’esistenza di una classe operaia e contadina ampia, militante, non imborghesita garantisce oggi una situazione eroica”; Berger affinerà poi il proprio discorso ricorrendo ad esempio all’analisi dell’opera di Pier Paolo Pasolini – cui dedicherà uno splendido medaglione nel 2006 – trovandovi altre aporie, certamente, ma anche ragioni di inesausto ripensamento e approfondimento. Pasolini, del resto, non è soltanto uno dei tanti partecipanti ai Funerali di Togliatti di Guttuso. È anche il protagonista della Giulia bianca di Flavio Giurato. Ed è, soprattutto, un intellettuale poliedrico, come lo stesso Berger, con un approccio del quale oggi si sente, più o meno, la mancanza. Ma i libri, le opere, hanno una qualità carsica.