L’opera come luogo intimo e accogliente, aperto all’incontro: spesso si tratta di un cliché che in ultima analisi non corrisponde alla realtà, ma nel caso di John Berger (1926-2017) non sembrano esserci molti dubbi sulla veridicità dell’assunto. Come ha rilevato, tra gli altri, Maria Nadotti – traduttrice, co-autrice e amica dell’autore – nella postfazione al recente volume Ritratti (Il Saggiatore, 2018), ogni opera di Berger – che si tratti di letteratura, saggi, disegni o di collaborazioni con fotografi o cineasti – lascia uno spazio peculiare all’intervento del lettore. Lo si capisce nella lettura, appunto, di Ritratti, poiché nella sua scrittura d’arte – nell’introduzione al libro, scritta sull’orlo dei novant’anni, Berger scrive: “Non ho mai sopportato di essere definito un critico d’arte”, rifiutando così ogni accademismo e, in generale, ogni possibile paludamento legato all’etichetta – l’interpretazione di Berger non si è mai basata su una metodologia critica rigidamente individuata, né tantomeno ha l’ambizione di configurarsi come l’unica ricezione ammissibile.
Ne ha scritto, in simili termini, anche Vittorio Giacopini, nella doppia recensione di Paesaggi (Il Saggiatore, 2019) e Ritratti per il “Domenicale” del Sole 24 Ore del primo settembre 2019: “Paesaggi e Ritratti […] mostrano bene il suo metodo, senza metodo, e possono essere letti tutti di fila, o aperti a caso, e ovunque trovi suggestioni, spunti, notazioni fulminanti e illuminazioni impreviste, gemme preziose”, delle quali il lettore può farsi liberamente carico. “Il gioco profondo è sempre quello tra l’occhio che guarda e la ‘cosa’ (un quadro, un fiore, un programma in tv, un libro, un sasso) e, ‘nel frattempo’, dietro la cosa e oltre lo stesso sguardo che scruta, sempre la Storia. L’arte, spogliata dall’ara mistico-borghese, colta in essenza, testimonia di questa nostra natura iperstorica, all’estremo, proprio nel suo sottrarsi al tempo scontato, ai calendari, agli annuari scritti dal Potere, dalla politica o meglio, oggi, dalla astratta finanza, globalizzata”.
Citazione densa di riferimenti, questa di Giacopini – poiché si lega ad almeno due opere fondamentali di Berger, come Ways of Seeing (BBC/Penguin, 1972, tradotto come Questione di sguardi per Il Saggiatore, 2015) e Meanwhile (Drawbridge, 2008, apparso in italiano sulla rivista Internazionale, e, a tutti gli effetti, una condensazione emblematica dell’attenzione di Berger per la dimensione temporale che si svolge “nel frattempo”) – e tanto più interessante quanto più mette in luce come l’ospitalità nella scrittura critica e letteraria, e nell’intervento intellettuale più in generale, di John Berger si radichi in primo luogo nella tradizione intellettuale di stampo marxista del secondo Novecento. Apparentemente legata a inquadramenti rigidi – come insinua la feroce stroncatura di Stephen Spender del primo romanzo di Berger, A Painter of Our Time (1958, tradotto in Italia, con il titolo Ritratto di un pittore, da uno strepitoso Luciano Bianciardi per Bompiani nel 1961), a causa dell’orientamento superficialmente filo-sovietico dell’autore nella trattazione dei fatti d’Ungheria del 1956 – la formazione marxista dell’autore gli permette, in realtà, di mantenere sempre aperto il movimento della dialettica. E questo avviene tanto nei confronti della propria opera – in fuga dal rischio sempre presente, per un autore marxista del secondo Novecento, della falsa coscienza – quanto nei confronti delle classi subalterne – ritratte senza paternalismo, e anzi facendo ricorso alle virtù testimoniali dello storyteller, nella trilogia di romanzi Into their Labours (1979-1991).
Forse l’unico neo nella recensione di Giacopini resta il titolo, probabilmente redazionale, con il quale si definisce John Berger Lo scrittore che ripudiava le parole. Certamente, questo titolo permette di ribadire quella che Giacopini descrive come la principale impasse effettivamente fronteggiata da Berger nella sua opera, e cioè il fatto che “tutto scrive: anche il potere, dunque, anche il capitale”. Berger, tuttavia, non arriva mai a suggerire una qualche forma di ripudio della parola: pur concedendo sempre grande spazio all’immagine (sia essa disegno, pittura, fotografia o immagine cinematografica), la sua fascinazione e il suo impegno nell’arte della parola restano inalterate dal primo romanzo sino all’ultimo testo, l’ibrido tra diario e sketchbook intitolato, appunto, Bento’s Sketchbook (2011, disponibile in italiano come Il taccuino di Bento grazie alla traduzione di Maria Nadotti del 2014, per Neri Pozza).
Disegno e prosa restano compagne di vita e di creazione per Berger per tutta la vita, ed è proprio a partire da questa duplicità che si può parlare, nello specifico, di uno dei moltissimi incontri propiziati dalla scrittura di John Berger, secondo l’aurea massima di Vinicius de Moraes, Sergio Endrigo e Giuseppe Ungaretti che forse a Berger stesso non sarebbe affatto dispiaciuta: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Moltissimi sono gli incontri che offre, per esempio, un’antologia poderosa come quella dei Ritratti, che va dalle pitture rupestri di Chauvet all’opera dell’artista palestinese Randa Mdah, nata nel 1983. Ma vi è anche, in tutta questa attenzione di matrice fenomenologica per l’arte, la possibilità di incontrare un gigante della filosofia e della fenomenologia come Maurice Merleau-Ponty: l’incontro resta sempre in sottotraccia nell’opera di John Berger – tutt’al più, in un’intervista del 1984 di Geoff Dyer, fedele discepolo bergeriano, per Marxism Today, appare una dichiarazione en passant: “In Francia c’erano autori ai quali mi sentivo più vicino: Sartre, in un modo diverso Camus, e Merleau-Ponty. Nell’Inghilterra che ho lasciato non c’erano pensatori del genere” – ma si tratta di una possibilità che può essere ora rattizzata dalla pubblicazione in traduzione italiana, per la cura di Pierre Dalla Vigna e con l’introduzione di Calo Sini, de La prosa del mondo di Merleau-Ponty (Mimesis, 2019).
Si tratta di un’opera mai completata dal filosofo e fenomenologo francese, che si colloca idealmente – come puntualmente ricordato dalla doppia introduzione all’edizione italiana – tra Qu’est-ce que la litterature? (1947) di Jean-Paul Sartre e Les mots et les choses (1966) di Michel Foucault, nonché, più in generale, tra il linguistic turn e il decostruzionismo. Di Sartre, Merleau-Ponty rifiuta tanto la concezione dialettica della letteratura, ereditata dal marxismo precedente, quanto il posizionamento esistenzialista, con la sua ricerca, anche dichiaratamente inutile, del senso dell’uomo nel mondo. Vicina a Foucault è invece, per usare le parole di Pierre Dalla Vigna, la considerazione del “linguaggio stesso come un flusso che attraversa il soggetto della produzione, che gli preesiste e che costituisce un tessuto di parole” (p. 12).
Tale posizione intermedia nella storia della filosofia francese è di grande conforto al posizionamento dello stesso Berger, sempre alla ricerca di una sua specifica articolazione e, al tempo stesso, di una sua specifica dinamicità. L’incontro tra Berger e Merleau-Ponty, tuttavia, è molto più ricco di spunti analitici, come si può osservare leggendo, in particolare, gli ultimi due saggi raccolti nella Prosa del mondo, ossia “La percezione dell’altro e il dialogo” e “L’espressione e il disegno infantile”. Nel primo saggio, Merleau-Ponty radica la propria visione della letteratura nella linguistica saussuriana, e ancor più nell’opera di Roman Jakobson: l’uso non convenzionale del linguaggio che è proprio della funzione poetica si traduce, infatti, nella metafora di Merleau-Ponty della lettura del testo letterario come ingresso “in una stanza [dove] si può notare che qualcosa è stato cambiato senza saper dire cosa” (p. 164, corsivo nell’originale).
Ancor di più, è la critica di Merleau-Ponty alla vulgata avanguardista seguita all’opera di Mallarmé a riannodare il filo che porta all’opera di Berger: mentre la fascinazione mallarmeana per la pagina bianca e allo stesso tempo per il Libro spingono ad un’alternativa radicale – in altre parole, ‘tutto o niente’ – Merleau-Ponty celebra lo “scrittore felice”, la cui “coscienza si crede coestensiva al mondo”, poiché “ognuno, in un certo modo, è di per sé la totalità del mondo” (pp. 174-6). La felicità, dunque, sta nel permettere alla totalità privata di fraternizzare con la totalità sociale: dal punto di vista fenomenologico, questo corrisponde con la fine della separazione classica tra oggetto e soggetto e dà allo scrittore il “potere di convincere gli altri e di entrare nel loro intimo” (p. 174), in una sorta di sconfinamento reciproco che è fatto proprio anche da John Berger, quando scrive, o disegna, il mondo.
Duplicità che emerge in modo ancor più chiaro nel secondo saggio, “L’espressione e il disegno infantile”, nel quale si stabilisce un rapporto solido, per quanto sottilmente articolato, tra il disegno infantile e quello che è proprio dell’arte primitivista – interesse ben presente, ad esempio, nei saggi dedicati da Berger a Henri Rousseau (1844-1910) o a Ferdinand Cheval (1836-1924), ma anche nei suoi romanzi che ospitano disegni stilizzati (quasi infantili, o al limite pre-puberali) come G. (1972) o From A to X (2008).
Per distinguere tra l’artista e il bambino, scrive Merleau-Ponty, si tratta di storicizzare ogni sistema di espressione, una pratica che Berger assume in modo integrale anche nella propria scrittura d’arte, capace di tornare più volte sui propri passi con una consapevolezza che è insieme storica e dialettica. Questo, tuttavia, non sopprime un bisogno fondamentale, che invece accomuna l’artista primitivista e il bambino, e cioè quello di rifuggire la prospettiva planimetrica come norma scientifica e (falsamente) oggettiva dell’espressione, alla ricerca della “autentica espressione delle apparenze” (p. 183) – termine proprio della fenomenologia, quest’ultimo, ma anche di molta della ricerca artistica e intellettuale di Berger.
Dopo aver parlato in questi termini del disegno artistico e di quello infantile, “queste osservazioni sono applicabili anche al linguaggio” (p. 184), conclude mirabilmente Merleau-Ponty, non soltanto chiudendo il cerchio della sua argomentazione (pur nell’incompiutezza della Prosa del mondo), ma anche dando un assaggio di quella “teoresi pratica” invocata da Marco Pacioni nella recensione al libro di Merleau-Ponty, pubblicata sul Il manifesto il 13 dicembre 2019.
Disegnare e scrivere il mondo servono, in effetti, a questo, all’esercizio di una teoresi pratica: più che critica d’arte, disegno o letteratura, è questa una delle categorie migliori per tornare a inquadrare – pur mantenendo sempre una prospettiva mobile e dinamica – non soltanto l’opera del filosofo e fenomenologo francese, ma anche quella del disegnatore, storyteller e intellettuale John Berger.
A John Berger è stato dedicato un focus monografico sul numero 13 della rivista di studi letterari e visuali “Arabeschi”, interamente disponibile qui.