Quando si scriverà, in futuro, una storia della penetrazione della letteratura scandinava in Italia tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo, si dovrà dedicare un ampio capitolo all’opera dei traduttori. Molte delle letterature nordiche si associano, ciascuna di esse, a uno o due nomi che in questi anni hanno veicolato con continuità ed efficacia una produzione vasta, multiforme, in precedenza dispersa nella disattenzione del mondo editoriale (un altro capitolo dovrà essere scritto sull’importanza di case editrici come Iperborea affinché tale stallo venisse superato) e che quasi hanno finito per identificarsi con quelle lingue, quelle culture, quel portato narrativo: Fulvio Ferrari e Carmen Giorgetti Cima per la Svezia, Silvia Cosimini per l’Islanda. E Bruno Berni per la Danimarca. Traduttore e consulente editoriale attento al panorama contemporaneo, Berni ha introdotto in Italia numerosi autori danesi, narratori e poeti, di cui ci ha presentato nel corso del tempo opere talvolta sorprendenti in traduzioni impeccabili; e studioso fine, conoscitore profondo della tradizione letteraria del paese scandinavo, ha continuato negli anni a proporre classici più o meno ignoti nel nostro paese, contribuendo a costruire un canone solido e di grande spessore, da Ludvig Holberg a J. P. Jacobsen a Karen Blixen. E a questo Johannes V. Jensen, scrittore noto e al tempo stesso negletto, in Italia e forse non solo. Noto, perché titolare di un Nobel per la letteratura, e negletto per lo stesso motivo: perché si trattò del premio attribuito nel 1944, in uno dei periodi più neri della storia europea e mondiale: quasi un premio bruciato, con l’Accademia di Svezia che, come paralizzata e incapace di dare un segnale di scossa o almeno di speranza al mondo, andò a pescare un autore oscuro, che anche nelle sue opere più note sembrava fuggire dalla storia e rifugiarsi in un passato trasfigurato e mitizzato. Ma ora Jensen, visto dalla distanza di un secolo, può essere recuperato e riproposto anche al nostro tempo, e proprio in virtù del suo essere insieme nella storia e fuori da essa.
Novità assoluta per il nostro paese (i “doverosi” volumi dedicati ai premi Nobel di UTET e Fabbri negli anni Sessanta/Settanta avevano fatto altre scelte), questo La caduta del re è una delle prime opere di Jensen e probabilmente la più famosa, certamente la più ambiziosa. Come bene spiega Berni nella sua introduzione, l’autore danese, nato a Farsø nel 1873, concentra nella prima parte della sua vita la maggior parte degli scritti più propriamente letterari, dedicandosi a partire dagli anni Venti soprattutto a lavori di carattere saggistico-scientifico centrati sull’evoluzionismo. Scritti in una forma difficilmente classificabile, che ricorda per un verso le fiabe di Andersen (ma anche le saghe e le leggende nordiche) e dall’altra gli scritti divulgativi, spesso anche fortemente ideologici, di autori come Hamsun o come Strindberg prima di lui, e in termini che possono provocare disagio in un lettore odierno (Den lange Rejse, Il lungo viaggio, 1919-21. L’opera più significativa in tal senso, mette in scena il lungo cammino dell’uomo nordico, ritratto dalle sue origini fino alla conquista del predominio sul mondo. Negli anni Quaranta, quando arrivò il Nobel, Jensen ormai lavorava soltanto, e da lungo tempo, alla redazione dei suoi Myter (Miti), nove volumi di brevi, singolari prose di racconti senza una trama: visioni, istanti congelati di esperienza, trascritti con forte valenza simbolica.
Caduta del re si situa in una fase precoce eppure già pienamente matura della sua produzione: uscita in tre parti tra il 1900 e il 1901, possiede le caratteristiche del romanzo realista ottocentesco e al tempo stesso è specchio delle avanguardie post-simboliste e premoderniste del suo tempo. Ambientato nella Danimarca del Cinquecento, all’epoca di Cristiano II, il romanzo prende spunto da un quadro di Carl Bloch che ritrae il sovrano negli anni del suo incarceramento a Sønderborg. Jensen usa quell’immagine e ne estrae una figura che aleggia sullo sfondo, quella di un secondo prigioniero, che diviene Mikkel Thøgersen, il protagonista della Caduta del re, un uomo fedele ai modelli e ai principî della sua epoca, eppure modernissimo, dilaniato dal desiderio di vendetta, dalla fedeltà al suo sovrano e da oscuri sensi di colpa. Un romanzo poderoso e complesso, ed erano state anche le difficoltà del testo a impedirne finora una traduzione: in parte racconto, in parte prosa poetica, La caduta del re segue un filo narrativo vasto, che a tratti si fa vago, e si sfilaccia in frammenti di prodigiosa autonomia, di cui, in chiusura, vogliamo dare un esempio:
Noi maciniamo, canta Fenia, facciamo rotolare la pietra, pesante come la terra, maciniamo per te albe e bestiame e fertili campi. Ti maciniamo nuvole scintillanti e piogge fecondatrici, trifoglio, fiori bianchi e gialli.
E maciniamo per te malattia e siccità, canta Menia nello stesso tempo, campi riarsi, aridità, e maciniamo per te chicchi di grandine grandi come pugni, per te facciamo turbinare nuvole di tempesta da ovest, oscurità, fulmini e terre che bruciano senza fiamma.
Maciniamo per te primavera e onde azzurre, ansima Fenia, facciamo iniziare l’estate per tempo, maciniamo boschi verdi pieni di uccelli che cantano, per te maciniamo amore, oblio e notti chiare.
Incastonato di gioielli come questo, La caduta del re è il romanzo di un passato nordico appena sfiorato dalla civiltà, ancora incardinato nel mito: eppure da esso emergono voci che ci parlano della nostra modernità, e speriamo che, nell’opera di riscoperta dei classici della letteratura scandinava, altre possano presto seguirle.