Nel fallimento il sapore amaro della vittoria: intervista a Joe Mungo Reed

Joe Mungo Reed, Magnifici perdenti, tr. Daniela Guglielmino, Bollati Boringhieri, pp. 251, euro 17,50 stampa

Giovane e talentuoso, il londinese Joe Mungo Reed con un’opera prima di rara intensità ha conquistato, a pieno titolo, la maglia rosa dei campioni. E la metafora, apparentemente faziosa, non è affatto casuale. A gennaio è uscito Magnifici perdenti romanzo ambientato nel mondo del ciclismo che va a colmare un deprecabile vuoto letterario su uno sport inclemente a cui pochi scrittori, prima di Reed, hanno osato dedicare passione e disincanto (fa eccezione, a memoria di chi scrive, l’inglese James Waddington e il suo noir Duri da morire pubblicato da Meridianozero nell’ormai lontano 2001).

La “vittoria” di Reed inaugura un anno che va a celebrare due magnifici campioni del ciclismo italiano: Fausto Coppi, del quale ricorre il centenario della nascita, e Marco Pantani (tardivamente) omaggiato, a quindici anni dalla morte, con una piazza a suo nome nella natia Cesenatico. L’Airone e il Pirata. Vincitori e vittime. Così Solomon, gregario per indole e voce narrante di Magnifici perdenti, vede se stesso e i compagni di gara. “Felice nella massa” di corridori lanciati verso l’ambito traguardo, rifugge l’aura di eroe tragico. Al dodicesimo giorno dall’inizio del Tour de France – “la competizione sportiva più dura al mondo” – negli attimi di stasi concessi da un pazzesco rituale, Solomon ripercorre la propria giovinezza, la scoperta dell’amore, dell’appagamento nel matrimonio con Liz e nell’inattesa paternità.

Cercando “il ritmo perfetto”, nella vita come nel ciclismo. Imponendosi, asceticamente, allenamenti sfibranti per entrare nei ranghi dei professionisti veri, fino a piegarsi al diabolico compromesso della corruzione fisica e morale del doping. Infatti, come i capitani programmati per vincere, anche i gregari meno ambiziosi devono sottostare alle ferree regole di Rafael, mefistofelico direttore sportivo. Disposto a tutto, persino a coinvolgere Liz, genetista stimata per il suo lavoro di ricerca, nel folle piano di contrabbando di sostanze dopanti.

Un punto di svolta che conferisce al bel romanzo di Reed suspence e tensione drammatica: elementi indispensabili a trasfigurare un’ascesa durissima, una volata finale nel sacrificio di sé e dei propri sogni, nel fallimento che ha il sapore amaro della vittoria. Lezione, questa, che sembra accomunare ciclismo e scrittura, afferma Joe Mungo Reed, conversando affabilmente in un caffè milanese all’ora (letale) dell’aperitivo.

 

Filosofia, politica, scrittura creativa: come il ciclismo sposa e sintetizza queste tue inclinazioni?

Lo sport professionale per me è la questione chiave. Quanto siamo corpo, ovvero quanto siamo definiti dai nostri corpi, quanto siamo mente e quanto la nostra vita mentale sia collegata al nostro corpo fisico. Questo è stato un buon punto di partenza per il mio studio della filosofia, e capirlo soprattutto in relazione allo sport. Ovviamente gli sportivi hanno una grande forza fisica ma ciò, magari, va a discapito dell’armonia e dell’equilibrio mentale.

La mia carriera – confessa Solomon, protagonista di Magnifici perdentiè stata costruita poco per volta, grazie a programmi e pianificazioni, grazie alla fede nella mia preparazione. Come ha “costruito” Joe Mungo Reed la sua opera d’esordio?

Ho costruito la mia carriera di scrittore scrivendo delle storie molto, molto male. E continuando a scrivere male, male, male. Ma continuando, comunque, a scrivere. Penso ci sia un’analogia tra la scrittura e lo sport: vedi che sta succedendo, te lo vedi davanti agli occhi e pensi di poterlo fare, dopodiché ci provi e ti rendi conto che, in realtà, è molto difficile. E bisogna fallire, fallire continuamente per esercitarsi e arrivare a superarlo.

Cerchiamo il ritmo perfetto, al quale potremmo pedalare per sempre, risultato di un insieme di cose: la respirazione, la spinta, il pensiero. Anche la tua prosa ha il “ritmo perfetto”, da passista a scalatore. Ne sei consapevole? C’è stata volontà di adeguare con lo stile il soggetto del romanzo?

Grazie mille per questo complimento! Sì, ho fatto proprio quello che dici: volevo che la mia prosa fosse abbastanza rarefatta e, contemporaneamente, creasse una tensione. Il ritmo è anche il risultato del lavoro fatto da Daniela Guglielmino, la traduttrice, che ha voluto mantenere quella tensione, il ritmo stesso del romanzo e trovo che abbia funzionato bene.

Solomon, a differenza di altri compagni di gara, ama essere un gregario. E, forse grazie a questo, il suo punto di vista restituisce fedelmente al lettore il realismo crudo e, a tratti, surreale del grande circo mediatico che è il Tour de France. Il tuo “magnifico perdente” è un personaggio di pura fantasia o, per crearlo, ti sei anche ispirato a qualche ciclista più o meno noto?

L’ho inventato esaminando il ruolo dei gregari, persone che fanno tanti
sacrifici senza essere premiati. E, quindi, mi sono chiesto quale fosse la loro mentalità, perché esistono e lavorano tanto per diventare solo corridori mediocri, eppure sono così veri in uno sport come il ciclismo. Li ho osservati e poi ho immaginato la loro mentalità.

Il titolo originale del romanzo (We Begin Our Ascent) mi sembra evochi non solo i corridori in gara, la loro lotta nell’affrontare la salita. Dal momento in cui Solomon decide di abbandonare il Tour, il ciclismo, e confessare il doping a cui si è sottoposto anche lui e Liz dovranno lottare. Sei d’accordo?

Sì, c’è effettivamente una doppia accezione nel titolo.

Il finale aperto, poi, mi sembra rimandi al racconto di Cechov “La signora con il cagnolino”, citato nel tuo articolo Weird Details.

Mi hai beccato nel plagio! (ride) No, sto scherzando, sto scherzando. Sì, ho pensato veramente alla “La signora con il cagnolino”. È il mio racconto preferito perché sembra non accada nulla di importante e poi c’è tutta una vita da vivere dopo gli eventi narrati. Questa è la sensazione che volevo riprodurre.

Allenamenti, ritiri, dieta ferrea. Nel ciclismo, come nella boxe, il corpo dell’atleta è sottoposto a una mortificazione quasi ascetica. Il fine è una sorta di purezza, corrotta inevitabilmente dall’uso di sostanze dopanti. Quando, secondo te, il ciclismo ha perduto la sua innocenza?

L’idea che lo sport sia innocente è molto problematica. Quando sono nate le Olimpiadi, per esempio, non si poteva fare i vogatori se si apparteneva alla working class. Il nostro problema da spettatori è non capire che questo è proprio il lavoro degli sportivi professionisti e loro, ovviamente, farebbero il possibile per tenerselo, come farebbe chi ha un’occupazione qualsiasi. Noi abbiamo due pesi e due misure, e come spettatori vogliamo che gli sportivi si comportino come dei gentlemen vittoriosi, eppure diamo anche tutta la colpa al Ventunesimo secolo. Dunque è un dilemma un po’ difficile.

“Inutile avere una bici leggerissima se ti porti nell’anima un corpo che pesa come un macigno” ha detto Marco Pantani. Credi che lo stesso possa dirsi per il mestiere di scrivere?

Sì, probabilmente. Secondo me nella scrittura c’è un vantaggio. Ci sono tre categorie nel ciclismo: puoi salire o scendere le montagne, puoi essere uno di pianura oppure puoi fare il cronometrista. Nella scrittura, invece, devi scegliere semplicemente qual è il tuo punto di forza: dagli haiku ai romanzi epici ci sono molti più modi per svelare le tue debolezze rispetto alle sole tre categorie del ciclismo.