Jhumpa nel riparo fragile

Jhumpa Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, pp. 180, euro 15,00 stampa, euro 8,99 eBook

recensisce SILVIA ALBESANO

Quarantasei capitoletti per fissare altrettanti momenti – o «stazioni», come si è tentati di chiamarle – dell’esistenza quotidiana di una donna di mezza età, i cui tratti restano volutamente vaghi, in una città italiana che non importa individuare con certezza. «Sul marciapiede», «Per strada», «In trattoria», «Al museo»… e poi ancora «Per strada», «Al telefono», ma anche «Ad agosto», «All’alba», «Da mia madre», «Tra sé e sé». Soste risapute, ordinarie, in cui la protagonista – una persona solitaria, riservata, che dice di sé con quieta lucidità «stare all’ombra mi riguarda» – misura la distanza che la separa da chi le sta accanto, dalle cose, dal passato, dai vivi e dai morti.

Ed è una distanza che nel libro trova molti corrispettivi concreti: soglie, confini, ponti, pareti sottili che dividono stanze d’albergo, e di cui viene costantemente ribadita la natura transitoria. Perché gli schermi, i diaframmi possono di colpo venire meno, diventare specchi o finestre che offrono scorci inaspettati sulla vita degli altri, e l’unica cosa certa è il movimento, la trasformazione impercettibile eppure inesorabile che avviene fuori e dentro di noi, spesso a nostra insaputa, mentre facciamo la spesa, andiamo al lavoro o aspettiamo il nostro turno in una sala d’attesa.

La sfida, allora, per chi guarda, ma più ancora per chi scrive, è intercettare il movimento, registrarlo, raccontarlo: «Sarebbe bello, un giorno, filmare questa processione» dice un amico alla donna – la quale pur nella sua solitudine vuol bene, c’è, si prende cura di cose e persone – mentre guarda con lei le ombre dei passanti proiettate su un muro. Un’impresa impossibile, forse, che Jhumpa Lahiri affronta con un coraggio spiazzante, in italiano, che per lei è lingua seconda, anzi terza (dopo il bengalese e l’inglese con cui ha vinto il Pulitzer e tanti altri premi), e che proprio per questo, è di per sé l’incarnazione del limite che diventa opportunità, mezzo creativo; della barriera che crea una distanza, sentita come necessaria, ma non per questo meno dolorosa.

Una lingua scarna, asciutta, ma precisa, che trae la sua forza da quella che di fatto – come Lahiri stessa la definisce in In altre parole (Guanda, 2015), suo primo libro in italiano – è una condizione di «deprivazione», «penuria», un «riparo fragile» scelto rinunciando consapevolmente alle sicurezze di un «palazzo». «Ambascia», «dovizia», insieme con «goduria», «abbiocco», «incasinato» e «portagioie, se ci penso la parola più bella che sia»…: si sente ancora, a tratti, la fatica e forse l’euforia della conquista, ma anche una profonda fiducia nel potere delle parole di costituire una «dimora», di «mettere al mondo», e il senso di libertà che riesce a comunicare solo chi ha individuato una sua strada e asseconda un’urgenza autentica.

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