Antonio Caronia
Il gusto del paradosso e lo sguardo clinico e impietoso sulla società non hanno mai fatto difetto a James G. Ballard, ma per lungo tempo sono stati messi al servizio di un discorso narrativo che verteva più sulla psiche dei suoi personaggi che sullo sfondo sociale in cui essa era immersa. Impareggiabile indagatore degli anfratti più profondi dell’animo, vero e proprio “palombaro della psiche” – secondo il noto aneddoto su Dalí da lui stesso riportato (1) – Ballard ha costruito, negli anni sessanta e settanta, quella che si potrebbe chiamare una “storia sociale dell’immaginario” del Novecento, in cui però la società restava il più delle volte sullo sfondo, non indagata nella sua struttura e nei suoi movimenti concreti, ma piuttosto presupposta, e vista soprattutto nel suo aspetto mediatico. Tanto in Il mondo sommerso quanto in Foresta di cristallo, in La mostra delle atrocità o Crash come in L’isola di cemento, quello che conta è prevalentemente il cortocircuito fra immaginario e psiche, il modo in cui “i processi tecnologici del XX secolo stanno depositando senza soste i loro fossili simultanei che formano cifrari nelle nostre menti come le stelle invisibili delle radiogalassie.” (2)
Nel 1975, però, Ballard pubblica un romanzo che segna una svolta rispetto alla sua produzione precedente: è High-Rise (3), una storia di “regressione sociale” ambientata in un grande grattacielo londinese, la discesa agli inferi di una comunità sin troppo protetta e improvvisamente proiettata in un processo di disgregazione sociale, in cui paiono messe alla berlina le teorie mcluhaniane sulla “ritribalizzazione” dell’uomo nell’era dell’elettricità. Questa volta le vicende dei personaggi ballardiani, soprattutto dei tre protagonisti Robert Laing, Richard Wilder e Anthony Royal, non rimandano soltanto alle trasformazioni della psiche in relazione all’immaginario, ma delineano una vera e propria analisi delle trasformazioni della società – analisi paradossale e caustica come è lecito attendersi dallo scrittore di Shepperton. In High-Rise vediamo ciò che in Il mondo sommerso o La mostra delle atrocità era soltanto presupposto o alluso, cioè il disfacimento della società civile innescato (e simboleggiato) dalle disfunzioni e dal deterioramento delle tecnologie: come se queste ultime avessero il compito non solo di fornire un supporto al dispiegarsi della vita associata, ma ne costituissero un fondamento più basilare e sostanziale. Interrotto il flusso di merci, di informazioni e di scambi che legavano gli abitanti del grattacielo alla città, il condominio si trasforma in una enclave, in un ambito chiuso e isolato sul quale lo “scienziato sociale” Ballard può esercitare le sue distaccate osservazioni.
“Il grattacielo aveva creato una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemozionale, insensibile alle pressioni psicologiche della vita di condominio, con esigenze minimali in fatto di privacy e capace di prosperare, come una macchina di nuova generazione, nell’atmosfera neutra. Era il genere di abitante che si accontentava di restare seduto nel suo carissimo appartamento a guardare la televisione senza audio, aspettando che i suoi vicini commettessero un errore”. (4)
L’interruzione della normalità rende più evidenti e conflittuali le stratificazioni sociali già esistenti nel condominio, e corrispondenti ai piani di abitazione. Il grattacielo diventa così, esplicitamente, la visualizzazione della scala sociale di una Gran Bretagna che si sarebbe avviata, di lì a pochi anni, a compiere il suo forsennato esperimento decennale di darwinismo sociale con l’era thatcheriana. In questa violenta e agitata struggle for life simboleggiata dal tentativo di Wilder (un nome che è già un programma) di conquistare i piani alti del condominio partendo da quelli più bassi, assistiamo a una curiosa inversione del classico modello robinsoniano di costruzione della civiltà borghese, basata però sulla stessa situazione e gli stessi meccanismi del romanzo di Defoe. Il ruolo della nave incagliata che fornisce a Robinson Crusoe gli elementi di fortuna su cui costruire la sua vita umanizzata nell’isola disabitata viene svolto, in molti racconti di Ballard (5), dalla città abbandonata alle cui risorse (abitazioni, cibo, armi) attingono i suoi personaggi. La stessa situazione si ripresenta in Il condominio, dove tanto Wilder quanto Laing e Royal si spostano da un appartamento all’altro ricombinando e utilizzando in modo diverso le poche risorse rimaste nel grattacielo. Ma mentre in alcuni dei racconti (per esempio nella “Città definitiva”) la situazione ripete quella del Robinson Crusoe, in cui l’intelligente utilizzo dei materiali che la nave gli concede prima di scomparire sott’acqua consente al protagonista di riprodurre, per così dire in vitro, la nascita del primo capitalismo, nel Condominio assistiamo invece a una liberazione incontrollata della violenza, a una regressione verso mitici stadi pre-civili. Eppure, ci ricorda un personaggio,
“è un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato di felice primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé postfreudiano e niente affatto innocente, violentato da un’educazione all’evacuazione troppo indulgente (…). I nostri vicini hanno tutti avuto un’infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perché non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi…” (6)
Come si vede, Ballard non ha affatto abbandonato la cifra della bruciante indagine psicologica che lo ha sempre contraddistinto, ma ha iniziato a piegarla verso un altrettanto caustica declinazione in chiave sociologica. In ogni caso, Il condominio segna il primo consistente abbandono da parte del nostro autore del genere fantascientifico, sia pure nella personalissima variante in cui l’aveva sempre praticato. Ci vorranno però circa vent’anni perché la vena sociologica inaugurata da questo romanzo si sviluppi pienamente nell’opera di Ballard.
Occorrerà forse prima che il suo immaginario si liberi dell’ambiguità e dall’inconsapevolezza delle sue origini attraverso le due folgoranti ed elaborate pseudo-autobiografie che sono Empire of the Sun (1984) e The Kindness of Women (1991). Poi, nel 1994, esce un romanzo che potremmo definire “di transizione”, che prepara il terreno all’ultima fase, più direttamente sociologica, dell’opera di Ballard. In Rushing to Paradise (7), infatti, ciò che Ballard mette sotto il suo sarcastico e grottesco microscopio narrativo è la perversione di una pratica ecologista e animalista che maschera la paranoia e l’estraneità ai rapporti umani di una donna solitaria e dolorosa. Barbara Rafferty, “doctor Barbara”, è uno dei personaggi più potenti e indimenticabili usciti dalla penna dello scrittore di Shepperton. Radiata dall’albo dei medici per aver praticato eutanasie, la dottoressa Barbara persegue una “one-woman campaign” per salvare gli albatri dell’atollo hawaiano di Saint-Esprit, usato dai francesi per i loro esperimenti nucleari. L’incontro con il sedicenne americano Neil, orfano di padre, semiabbandonato dalla madre e ossessionato da fantasie di morte atomica, permette a Barbara di realizzare nell’atollo un “santuario” per la protezione delle specie animali minacciate di estinzione. Ma Saint-Esprit, tra sparizioni, febbri misteriose, visitatori trovati morti sul fondo della laguna o nel giardino della dottoressa, si rivela ben presto una via di mezzo fra una sinistra utopia femminista-animalista e un lager. Le ossessioni e le pulsioni di morte della dottoressa Barbara attirano, anche sessualmente, Neil, poi il progetto eugenetico-calvinista di lei lo respinge. Eppure, anche dopo la tragica conclusione, il ragazzo spera di essere “ancora abbracciato dal cuore crudele e generoso” della dottoressa. Rushing to Paradise è quindi un’ennesima “ambigua utopia” in cui Ballard ritorna a indagare le sottili perversioni della “perdita più atroce del secolo: la morte del sentimento” (8), in cui però la dimensione “microsocietaria” della comunità che abita l’atollo non consente se non sparse e oblique allusioni a un discorso sociale più compiuto.
Discorso che invece innerva largamente i tre successivi romanzi, Cocaine Nights (9) (1996), Super-Cannes (10) (2000), Millennium People (11) (2003), che potrebbero essere definiti come una sorta di trilogia di “thriller psicopatologici.” In essi è ormai scomparsa ogni traccia, anche lieve, di “anticipazione”; in un certo senso si potrebbe ancora parlare, naturalmente, di speculative fiction, ma il mondo di queste narrazioni è inequivocabilmente il nostro presente: nelle tecnologie, nei modi di vita, nei costumi, nelle ideologie. La torsione a cui questo presente è sottoposta è però ancora, in qualche modo, di tipo “fantascientifico”, nel senso che Ballard tenta acutamente di rendere letterali – e perciò esplicite, innervate nella struttura narrativa – quelle che nella percezione comune sono ancora solo metafore, o tendenze. È come una “fantascienza del presente,” che esprime in fondo un’eredità swiftiana. Come se Ballard riconoscesse che le tendenze “futuribili” – le storie di moltiplicazione dell’identità e di diluizione dell’io nell’immaginario che aveva raccontato in The Atrocity Exhibition, la fusione panica di corpo e tecnologia che aveva rappresentato in Crash – in trent’anni si sono trasformate in elementi attuali della nostra esperienza, che il media landscape ancora in incubazione negli anni sessanta è ormai definitivamente un paesaggio non solo mediale, ma direttamente e ineluttabilmente psichico – e sociale. Per questo Ballard (e con lui Cronenberg) è riconosciuto da alcuni psichiatri come uno dei narratori più lucidi e attendibili, anche clinicamente, della malattia mentale contemporanea.
Tutti e tre i romanzi descrivono delle “comunità artificiali”, fortemente tecnologizzate, che vivono in enclave protette e in qualche modo separate dal resto della società. Ballard aveva già descritto una situazione del genere nel romanzo breve Running Wild (12), del 1988, e aveva mostrato come la paranoia della sicurezza e l’isolamento dorato trasformino queste nuove comunità di benestanti (ma non ricchissimi) in un terreno di incubazione del crimine. In questa ideale trilogia, però, la violenza, l’aggressione e l’assassinio non sono più visti soltanto come sintomi del malessere di una società che sta smarrendo le sue coordinate di fondo, le ragioni di uno stare insieme che vada oltre la soddisfazione di bisogni elementari. Al contrario, essi diventano paradossalmente una via per reagire allo stato di apatia e di abulia che impera in queste pseudo-comunità: la violenza è teorizzata e praticata da alcuni personaggi come strumento di coesione sociale, come “motore di socialità”. I primi due romanzi hanno una struttura e delle tematiche molto simili, e sono ambientati alle due estremità di quell’ideale “superstrada delle vacanze” che si affaccia sul Mediterraneo occidentale, dal sud della Spagna fino alla Costa Azzurra. Cocaine Nights si svolge infatti a Estrella de Mar, un villaggio residenziale sulla Costa del Sol abitato da una fauna di vecchi e meno vecchi pensionati internazionali della fascia medio-alta. In Super-Cannes, invece, siamo trasportati nei viali asettici e nelle assolate ville con piscina della “città intelligente” di Eden-Olympia, un parco tecnologico sulla Costa Azzurra molto simile a quello reale di Sophia Antipolis, la Silicon Valley d’Europa. In entrambi i romanzi agisce una coppia maschile di protagonisti, come spesso avviene in Ballard (l’esempio più caratteristico è la polarità Ballard-Vaughn in Crash) – un io narrante (trasparente proiezione autobiografica dell’autore), che penetra dall’esterno nell’enclave, tenta goffamente di indagare su un fatto di sangue precedente al suo arrivo, e così facendo scopre progressivamente il meccanismo di perversione e violenza che sotterraneamente regge la vita di quel luogo; e l’animatore locale di quello stesso meccanismo, un personaggio a metà fra un Peter Pan troppo cresciuto e uno psicopompo di criminalità, che coinvolge poco a poco il narratore nel suo gioco, e a cui Ballard guarda però, come sempre, con ambigua benevolenza. In Cocaine Nights il narratore è lo scrittore di viaggi Charles Prentice (“la mia professione è attraversare frontiere” (13), giunto a Estrella de Mar per scagionare il fratello da un’accusa di assassinio e trascinato poco a poco da Bobby Crawford, il tennista professionista del Club Nautico, nel sottile programma di aggressioni e vandalismi con il quale quest’ultimo intende restituire alla vita la sonnacchiosa comunità di pensionati. In Super-Cannes Paul Sinclair, pilota ed editore di mezza età, arriva a Eden-Olympia in compagnia della moglie medico, e inizia quasi per caso a indagare sul massacro compiuto mesi prima dal predecessore della moglie. Non convinto dall’ipotesi dell’inspiegabile scoppio di follia, nel corso delle sue indagini Sinclair scivola progressivamente dentro il perverso meccanismo di violenza con il quale lo psichiatra Wilder Penrose vuole curare i manager e i quadri di Eden-Olympia dalle loro tensioni nevrotiche. In nessuno dei due romanzi, naturalmente, la strada scelta si rivela priva di controindicazioni, e il finale è sempre amaro, perché protagonista e deuteragonista risultano sempre, in qualche modo, sconfitti: la scoperta della verità non disegna alcuna credibile prospettiva di liberazione. Ciò è coerente, va da sé, col lucido pessimismo di Ballard. Ma ancora una volta, come in The Atrocity Exhibition e Crash, il nostro autore si dimostra convinto che “i comportamenti psicopatici e perversi rappresentano allo stesso tempo nuove psicopatologie e nuove terapie che la trasformazione tecnologica e sociale consente di liberare e realizzare per espellere il dolore mentale connesso alle perdite e alle ‘organizzazioni della colpa’ che generano, per infrangere il vissuto di estraneità a se stessi e alla realtà che si esprime nella noia, nella depersonalizzazione, nella frammentazione dell’identità” (14).
Vediamo come, in Cocaine Nights, la classica e tagliente analisi ballardiana della psicologia dei personaggi di sfondo si faccia concreta e vivente analisi sociale:
“Schermandomi gli occhi dal sole, guardai dentro una delle sale in ombra. Sotto la tenda si dispiegava la replica tridimensionale di un quadro di Edward Hopper. Gli abitanti, due uomini di mezza età e una donna sulla trentina, sedevano nella stanza silenziosa, con le facce illuminate dalla luce tremolante di una televisione. Non c’era espressione nei loro occhi, come se le vaghe ombre sulla tela che ricopriva le pareti avessero da tempo, e con successo, sostituito i loro pensieri.
«Stanno guardando la televisione escludendo il suono», dissi a Crawford mentre percorrevamo la terrazza, passando davanti a diversi gruppi come quello, tutti isolati nelle loro capsule. «Che cosa gli è successo? Sono come una razza aliena di un pianeta oscuro, che non riesce a sopportare la nostra luce.»
«Sono profughi del tempo, Charles. Guardati intorno: non si vede in giro un orologio, e anche al polso la gente ne porta pochissimi.»
«Profughi? È vero, in qualche modo questo posto mi ricorda il terzo mondo. È come una favela di Rio, o una bidonville algerina, solo molto più di lusso.»
«È il quarto mondo, Charles. Quello che aspetta di rilevare tutta la baracca.» (15)
Come si è visto, torna l’immagine dello spettatore che guarda la televisione ad audio spento che era già comparsa in Il condominio. Questi “profughi del tempo”, questo “quarto mondo” che ha neutralizzato in parte entro se stesso la tradizionale polarità fra borghesia e proletariato, rappresentano la nuova classe media ipertrofica e anestetizzata dalla società dello spettacolo, che ha azzerato ogni processo di produzione e di riconoscimento del senso al punto tale che preferisce esporsi all’immagine televisiva “pura”, espungendo anche quel residuo di significato emotivo e razionale rappresentato dal suono. È questa classe media che Bobby Crawford si propone di risvegliare, offrendole con le sue piccole ma ripetute provocazioni l’occasione di una vitalità e di un’attività che né il sistema produttivo né l’organizzazione del “tempo libero” (sempre più indistinguibili) prevedono più.
Come se l’automazione della vita contemporanea chiedesse comunque di essere compensata dall’irruzione di un elemento di soggettività allogena e imprevedibile, ersatz della durezza e dell’irritabilità di un ambiente naturale di cui non si ha più esperienza, come della ricchezza e della sfida di un ambiente sociale ridotto a una sequenza behaviorista di meccanismi stimolo-risposta. È interessante vedere come Crawford spiega e argomenta la sua strategia a un Prentice ancora poco convinto, ma già disposto a farsi contagiare dall’entusiasmo del tennista:
«No, Charles.» Crawford parlava pazientemente. «Tu non sei più addormentato. Adesso sei ben sveglio, sei più vigile di quanto tu sia mai stato. Le irruzioni sono come il cilicio del cattolico fervente, che scortica la pelle e acuisce la sensibilità morale. Il prossimo furto ti riempie di rabbia, addirittura di una rabbia farisea. La polizia è impotente, ti rifila soltanto vaghe promesse, e questo genera un senso di ingiustizia, la sensazione di essere circondati da un mondo spudorato. Tutto ciò che ti circonda, dai quadri all’argenteria, tutto quello che hai sempre dato per scontato, adesso è inserito in questo nuovo quadro morale. Sei più cosciente di te stesso. Zone addormentate della tua mente, che per anni non avevi frequentato, tornano a essere importanti. Cominci a rivalutare te stesso, come hai fatto tu, Charles, quando quella Renault ha preso fuoco.»
«Forse… però non mi sono messo a fare tai-chi né ho cominciato a leggere un libro nuovo.»
«Aspetta: puoi ancora farlo.» Crawford mi pressava, ansioso di convincermi. «È un processo che richiede tempo. L’ondata di crimini continua: qualcuno caga nella tua piscina, saccheggia la tua camera da letto e va in giro a giocare con la biancheria di tua moglie. Adesso l’ira e la rabbia non bastano più. Sei costretto a ripensare te stesso a ogni livello, come un uomo primitivo che si scontra con un universo ostile dietro a ogni albero, a ogni roccia. Sei cosciente del tempo, delle possibilità, delle risorse della tua immaginazione. Poi qualcuno rapisce la signora della porta accanto, e allora ti unisci al marito oltraggiato. Crimine e vandalismo sono ovunque. Devi sollevarti al di sopra di questi delinquenti scriteriati e del mondo balordo in cui vivono. L’insicurezza ti costringe a rivalutare tutte le risorse morali che hai a disposizione, proprio come un prigioniero politico si impara a memoria Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, uno che sta per morire suona Bach e ritrova la fede, o i genitori che piangono il loro bimbo morto si mettono a fare lavoro volontario in un ospedale». (16)
Qui Crawford esprime chiaramente (“come un uomo primitivo che si scontra con un universo ostile…”) la necessità di ricostruire artificialmente quelle sfide ambientali che la società contemporanea fa di tutto per smussare e rimuovere. Sono le situazioni di rischio e di pericolo che ridestano le “risorse morali” e riportano il cittadino a una soglia di attivismo e di protagonismo che peraltro viene sempre più richiesto dalla stessa dimensione biopolitica del potere. Leggendo la descrizione che Crawford fa del “risveglio della comunità” sembra di leggere il programma di un consiglio di quartiere, o di un’associazione culturale di base della periferia di una grande città europea:
«Formiamo comitati di sorveglianza, eleggiamo un consiglio, andiamo orgogliosi dei nostri quartieri, ci iscriviamo a club sportivi e società di storia locale, riscopriamo la vita di ogni giorno che prima davamo per scontata. Ci accorgiamo che è più importante essere un pittore di terz’ordine che guardare un cd-rom sul Rinascimento. Cominciamo tutti insieme a sviluppare le nostre potenzialità, e alla fine troviamo la nostra strada come individui e come comunità.» (17)
Crawford è cosciente che il suo utilizzo del crimine come pungolo sociale è un ripiego, in una situazione in cui gli strumenti tradizionali non funzionano più. Le sue parole sono una buffa (ma in ultima analisi tragica) parodia del linguaggio di un attivista politico di sinistra (“qualcosa che rompa le regole, che superi i tabù sociali”), ed esprimono la stessa (secondo Ballard, in fondo immotivata) fiducia negli esseri umani.
«Perché proprio questa molla? Perché non… la religione, o qualche tipo di coscienza politica? Sono queste le cose che hanno retto il mondo nel passato.»
«Ormai non più. La politica è finita, Charles, non tocca più l’immaginario pubblico. Le religioni sono emerse troppo presto nell’evoluzione dell’uomo: hanno innalzato dei simboli che la gente ha preso alla lettera, e adesso sono morte come una fila di pali totemici. Le religioni avrebbero dovuto nascere più tardi, quando la razza umana comincia ad avvicinarsi alla fine. Purtroppo il crimine è l’unico impulso che ci sprona a svegliarci. Siamo affascinati da questo “altro mondo” dove tutto è possibile.»
(…)
«Qui il futuro è già arrivato, Charles, si comincia già a sognare il suo incubo. Io credo nella gente, Charles, e so che si merita di meglio.»
«E li riporterai alla vita con i film porno, i furti e la cocaina?»
«Questi sono solo strumenti. La gente è così attaccata al sesso, alla proprietà e all’autocontrollo. Non parlo del crimine nel senso in cui lo intende Cabrera. Io parlo di qualcosa che rompa le regole, che superi i tabù sociali.»
«Non si può giocare a tennis senza osservare le regole.»
«Ma, Charles…» Crawford sembrava assorto nella ricerca di un argomento da oppormi.
« Quando l’avversario bara, si pensa a come raddrizzare la partita.» (18)
Ballard è molto abile nel mantenere Cocaine Nights (e Super-Cannes) costantemente in bilico fra il paradosso dell’analisi, l’ironia della rappresentazione e il rifiuto morale (che è indiscutibile) della violenza. Ma a questi due romanzi viene spontaneo fare un’obiezione – forse scontata, ma pertinente. Dove sta la società pacificata e abulica che ci mostra Ballard? Perché ipotizzare un’iniezione artificiosa di violenza quando già i meccanismi economici, le scelte politiche, il darwinismo sociale liberista offrono quotidianamente alla gente occasioni di rifiuto e la necessità concreta di ribellarsi e di assumere un ruolo più attivo? In altre parole, non c’è già nel funzionamento quotidiano della società postfordista un elemento di conflittualità e di “movimentazione” che travalica, certo, le tradizionali dinamiche di classe, ma non abolisce affatto il conflitto di classe? A queste ipotetiche obiezioni sembra rispondere proprio l’ultimo romanzo di Ballard, Millennium People. Millennium People mette in scena proprio una scombinata e pungente rivolta (ma pur sempre rivolta) dei ceti medi inglesi contro i processi di impoverimento materiale e di instupidimento mentale messi in opera da un “potere” che, per essere impersonale e sfuggente perché nascosto dietro i veli dell’“oggettività economica” non è meno insidioso e oppressivo. Anche qui, è un omicidio che apre la narrazione, e sfida l’alter ego narrativo dell’autore a uno sforzo di comprensione della realtà che lo circonda. Laura, la ex moglie di David Markham, psicologo dell’Istituto Adler di Londra, muore all’aeroporto di Heathrow in un attentato. David, spronato anche dall’attuale moglie Sally, intraprende un’indagine privata fra i gruppi di attivisti dei movimenti no global per individuarne frange estreme che possano aver commesso l’attentato, e si imbatte nella comunità di Chelsea Marina, un quartiere residenziale dell’ovest di Londra abitato da frange di piccola borghesia benestante, ma non abbastanza ricca da poter sopportare i costi dei mutui e delle spese comuni, saliti alle stelle. A Chelsea Marina, come David scopre ben presto, serpeggia la rivolta: sciopero delle spese di manutenzione, proteste contro i parchimetri, contestazione delle ipoteche. Portavoce della ribellione è Kay Churchill, docente di cinema scombinata e brillante, ma il vero leader, che agisce dietro le quinte, è una figura ancora più ambigua e pericolosa, Richard Gould, un medico impegnato un tempo nella cura di malati terminali bambini. Gould è l’ennesima incarnazione dell’idealista che predica la violenza e come un apprendista stregone guida il plot verso la catastrofe, un personaggio sempre presente nei romanzi di Ballard, dal Vaughan di Crash al Bobby Crawford di Cocaine Nights. Il coinvolgimento progressivo di David nella rivolta di Chelsea Marina e nelle iniziative collaterali violente che intorno a essa fioriscono (incendi di cinema e musei, fino agli omicidi) portano David sempre più vicino a Gould, che teorizza la violenza immotivata e gratuita come unico strumento per smuovere le coscienze e far crescere il movimento. Sino alla inevitabile catarsi, che vedrà il rifluire del movimento, la scoperta dell’assassino di Laura e il ritorno a casa di un David trasformato e (forse) riconciliato con se stesso.
Ballard è maestro nel tratteggiare il senso di inquietudine e di panico che la rivolta dei ceti medi propaga nella città. I nuovi professionisti, poveri-ma-non-troppo e ricchi-ma-non-abbastanza, si sentono frustrati non solo sul piano economico, ma anche su quello dell’immaginario:
«Abbiamo creduto nei sogni spazzatura di questo secolo [il secolo XX, ndr], e adesso non riusciamo a svegliarci. Tutti questi ipermercati, queste comunità cintate. Una volta che le porte si chiudono, non si può più uscire (…).»
«Giusto. Ma c’è un problema con questa società spazzatura. Ai ceti medi piace.»
«È naturale, » si intromise Joan. «Ne sono schiavi. Ormai sono il nuovo proletariato, come gli operai delle fabbriche un secolo fa». (19)
L’intuizione sociologica più interessante del romanzo è proprio questa visione dei ceti medi come “nuovo proletariato,” un processo che Ballard ritiene più visibile in Gran Bretagna che in altri paesi (“È solo qui che il sistema delle classi è uno strumento di controllo politico. Il suo vero compito non è reprimere il proletariato, ma tenere sotto controllo i ceti medi, assicurarsi che siano docili e sottomessi.”) Per quanto esasperata ed espressa in modo paradossale, è una tesi che ha qualche fondamento. Naturalmente Ballard vede bene tutti i limiti del “dadaismo scatenato” della piccola borghesia, e infatti ne descrive con spietata (ma in fondo simpatetica) ironia l’inevitabile riflusso. E tuttavia in questo paradossale e disincantato quadro á la Bosch di perversioni intellettuali ed emotive si nasconde il riconoscimento di una profonda trasformazione, quella della nuova “composizione di classe” indotta dalla globalizzazione postfordista e liberista della società occidentale.
L’ultimo Ballard si dedica insomma a costruire un ritratto (al vetriolo, come il suo solito) dei dispositivi di socialità della piccola borghesia occidentale (dopo averne esplorato, nei due decenni precedenti, sogni, incubi e comportamenti a livello della psiche individuale). E siccome l’immaginario, per lo scrittore inglese, si incarna da sempre in un rapporto acutamente indagato fra psicologia individuale e collettiva dei personaggi e luoghi da essi abitati, questo ritratto è anche una galleria dei templi e dei rifugi del ceto medio tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI.
NOTE
1 Prima di tenere una conferenza a Londra in uno scafandro alla fine degli anni Cinquanta, interrogato dall’operaio che gli chiedeva sino a che profondità fosse intenzionato a scendere, Salvador Dalí rispose: “Fino all’inconscio!”. Vedi J. G. Ballard, “Qual è la via per lo spazio interno?” [1962], in Fine millennio: istruzioni per l’uso, trad. di A. Caronia, Baldini&Castoldi, Milano 1999, p. 278.
2 James G. Ballard, corrispondenza con Riccardo Valla (1968), in: Gianni Montanari, Ieri, il futuro. Origini e sviluppi della fantascienza inglese, Nord, Milano 1977, p. 164.
3 James G. Ballard, High-Rise, Jonathan Cape, London 1975, tr. it. di Paolo Lagorio, Il condominio, Feltrinelli, Milano 2003.
4 Il condominio, cit., p. 40.
5 Vedi, per esempio, “Cronopoli” e “Prigione di sabbia” in J. G. Ballard, Tutti i racconti 1956-1962, trad. di R. Romanelli, Fanucci, Roma 2003; “La città definitiva” e “Ricordi dell’era spaziale” in J. G. Ballard, Tutti i racconti 1969-1992, trad. di L. Briasco, Fanucci, Roma 2005.
6 Il condominio, cit., p. 118.
7 James G. Ballard, Rushing to Paradise, Flamingo/HaperCollins, London 1994; trad. it [di A. Caronia], Il paradiso del diavolo, Baldini&Castoldi, Milano 1998.
8 J. G. Ballard, Prefazione all’edizione francese del 1974 di Crash (presentata come Postfazione nell’edizione italiana, Crash, trad. di G. Pilone Colombo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 199).
9 J. G. Ballard, Cocaine Nights, Flamingo/HaperCollins, London 1996; trad. it di A. Caronia, Cocaine Nights, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
10 J. G. Ballard, Super-Cannes, Flamingo/HaperCollins, London 2000; trad. it di M. Pareschi, Super-Cannes, Feltrinelli, Milano 2000.
11 J. G. Ballard, Millennium People, Flamingo/HaperCollins, London 2003; trad. it di D. Vezzoli, Millennium People, Feltrinelli, Milano 2004.
12 J. G. Ballard, Running Wild. With Illustrations by Janet Woolley, Hutchinson, London Sidney Auckland Johannesburg 1988; trad. it di F. Castellenghi Piazza, Un gioco da bambini, Anabasi, Milano 1992 (poi Baldini&Castoldi, Milano 1999).
13 J. G. Ballard, Cocaine Nights, ed. it., cit., p. 9.
14 Riccardo Dalle Luche, “J.G.Ballard e la psicopatologia della sopravvivenza,” intervento al convegno James G. Ballard. Spazio Interno, atrocità, catastrofe, Napoli, 30 novembre 2001.
15 J. G. Ballard, Cocaine Nights, ed. it., cit., p. 209.
16 Ivi, pp. 236-237.
17 Ivi, p. 237.
18 Ivi, pp. 237-238.
19 J. G. Ballard, Millennium People, ed. it., cit., p. 61.
[Relazione presentata al convegno “La Città e la violenza. I mondi urbani e post-urbani di James G. Ballard”, Ascoli Piceno, 27-28 ottobre 2005: Ora in La città e la violenza. I mondi urbani e posturbani di James G. Ballard, a cura di Paolo Prezzavento, Otium/Paoletti editori, Ascoli Piceno 2007.]