Nella collana Alfabeto UTET, la saggista e giornalista Jennifer Guerra affronta la parola che è oggi forse più difficile da definire senza incorrere in critiche, disappunti, sottolineature, precisazioni: la parola “donna”. Il ruolo della donna e la sua subordinazione all’uomo (la donna come sesso inferiore, un uomo mancato, un uomo con un buco) sono un prodotto culturale, variabile nelle epoche ma con radici storiche lontane, legittimato dalla maggior parte della produzione culturale e accresciuto nell’età dell’industrializzazione e dell’ascesa della borghesia. In età moderna la donna ideale è un “angelo del focolare”, una forma accogliente e compiacente di femminilità. L’approvazione che riceve, in cambio, dall’uomo, è qualcosa di cui essere contente; e chi non sarebbe contenta di essere definita angelo? – un ruolo, tra l’altro, non previsto linguisticamente e concettualmente al femminile, eppure denotato da particolari estetici femminili: non si sono mai visti angeli dalla pelle bruciata dal sole e il petto villoso.
La presa di coscienza “femminista” della donna e del suo stato è avvenuta confrontandosi con l’uomo, notando le differenze nei ruoli, nei diritti, nella considerazione sociale, in questo modo però considerando l’uomo la meta, la neutralità di riferimento, l’universale, la norma. Assunta ormai piena consapevolezza del sistema patriarcale – ed è da qui che parte Guerra, da questo punto fermo – la donna oggi che cosa è? Che cosa può essere? La proposta dell’autrice – nei cui testi, in particolare Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (Tlon, 2020) e Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario (Bompiani, 2021), la categoria futuro è sempre molto presente – è che proprio la storia della donna, tutto quel vuoto e quell’invisibilità, possano essere la base per una nuova narrazione.
Il dibattito femminista oggi è intrecciato con quello sul genere (un concetto culturale) contrapposto al sesso (la natura): una contrapposizione talvolta feroce, con divagazioni stereotipate come il cosiddetto “scientismo di genere”, ovvero il pensare ai generi come innati, biologici, con collegati degli attributi specifici: se il genere fosse puramente descrittivo e non anche prescrittivo, se “è” non fosse automaticamente “deve essere”, il contrasto non sussisterebbe, come scrive l’autrice. Le discussioni sul genere aggiungono complessità al dato biologico, togliendo a quest’ultimo i valori prescrittivi da secoli correlati, e sono naturalmente congiunte alle tematiche femministiche volte a rivedere il ruolo e la sostanza della donna. D’altro canto, però, secondo alcune istanze anche femministe, la prevalenza discorsiva del genere rischia di cancellare il soggetto donna. C’è chi, insomma, teme che se si esce dai limiti di un apparente e costruito ordine naturale delle cose, la donna risulti del tutto indeterminata. E in effetti i dizionari sono in difficoltà; ricorda l’autrice che di recente il dizionario Cambridge ha aggiunto alla prima definizione di donna (“una femmina adulta di essere umano”) una seconda: “adultə che vive e si identifica come femmina anche se potrebbe aver avuto attribuito un sesso diverso alla nascita”.
Se la divisione biologica tra uomo e donna è superflua e la donna ha perso quei caratteri, attributi e ruoli che si volevano per lei naturali, c’è da sentirsi smarrite? No, questo è quello che qualcuno vorrebbe. In realtà, scrive Guerra, “Non c’è più un confine da attraversare, o di qua o di là, per determinare quella divisione [uomo / donna], ma si è aperto uno spazio di possibilità. Qualcosa che non nasce, si diventa.” Il punto è che bisogna smettere di cercare continuamente conferme nella natura: che è complessa, continuamente sovrascritta culturalmente e, in ogni caso, non è tutto ciò che siamo. Judith Butler, filosofa femminista alla quale si attribuisce generalmente l’invenzione del termine gender, ha scritto “Anche se si ‘è’ una donna, ciò di sicuro non è tutto ciò che si è”. Guerra sostiene che il femminile è pensabile come una eccedenza rispetto a quello che si è. Le donne sono sempre state rappresentate come eccessive: nella sensibilità, nell’isteria, nel pianto, nella rabbia, nel flusso mestruale. In eccesso, rispetto all’uomo, hanno anche un organo del piacere in più.
“Sartre osservava che l’oscenità del sesso femminile consiste nell’ ‘essere bucata’, ovvero di avere bisogno di una ‘carne estranea che la trasformi in pienezza di essere’. Ma, come fa notare Catherine Malabou, ‘essere bucata […] non appartiene a nessun mondo, non esiste’. Un buco non può esistere da solo, ma ha bisogno di un intorno che lo renda possibile. Quello che dobbiamo fare, nel ripensare il femminile, non è provare a riempire quel buco, ma rifiutarlo. Solo così si può ancora ipotizzare un’esistenza.”
Il saggio di Guerra è tutto su questo spazio di possibilità che rifiuta il buco, la controparte mancante, il negativo di un sé pienamente realizzato. Serve un grande sforzo di immaginazione per accettare che l’essenza della donna, definita troppe volte, non sia definibile; e che quella impossibilità sia il punto di forza. È difficile perché non ci si può confrontare né prendere a imitazione l’altra metà del mondo: “Gli uomini non hanno bisogno di pensarsi come uomini, perché la loro identità risiede nello stesso potere di vedere le donne come non-uomini. […] In molte lingue, compresa la nostra, uomo è infatti la parola che identifica l’essere umano. Lo sforzo di immaginazione non serve quando il mondo coincide con il proprio sé.”
È, allora, una storia tutta da scrivere, senza ricorrere alla via facile di fare elenchi di donne che sono esistite e hanno fatto cose (presumendo così di riscrivere la storia delle discipline). Si tratta piuttosto di trovare una nuova modalità di narrazione e di sguardo, indipendente da tutta quella produzione culturale che è sempre stata contro le donne: un progetto complicato, eccitante, indubbiamente eccessivo, a portata solo di donne.