Questa volta niente misteriose “zone” sospese nello spazio-tempo, né perturbanti creature mutaforma. Ma soprattutto niente più “futuro”: la fine del mondo in Colibrí Salamandra, nuovo romanzo di Jeff Vandermeer, è proprio adesso. O, per meglio dire, una manciata di secondi davanti a noi, un breve e ragionevole lasso di tempo che possiamo anche misurare in base alle migliaia di specie animali dichiarate nel frattempo estinte o con la maggiore familiarità che droni di ogni tipo – trasportatori, metronotte, ecc. – dimostrano ogni giorno sopra alle nostre teste. Nella California del Nord che fa da sfondo alla storia, ai margini di un mondo acquitrinoso e pandemico, resistono i motel scalcagnati assieme ai simboli sconnessi e alle professioni dell’America che fu. Malgrado tutto puoi ancora vendere case o auto usate. La fine del mondo, del resto, non è negata da nessuno ma è rimossa da tutti, delocalizzata mentalmente qualche miglio più in là (“la catastrofe è là, non qua da noi!”) o annegata nella routine familiare, nelle convention aziendali, nella quotidianità ancora protetta dei sobborghi.
Nel nostro caso la catastrofe è anche raccontata al passato, in prima persona, da Jane, una analista di mezza età, con un corpo fuori misura, da gigantessa palestrata, con una borsa altrettanto fuori misura. Jane è, da subito, una narratrice molto fisica, che non smette di raccontarsi attraverso il proprio corpo – malmenato, bruciacchiato, crivellato dai proiettili nel corso della vicenda come in qualsiasi action che si rispetti – che ha imparato a usare come un ariete per farsi largo e sopravvivere con relativo successo in un fortilizio maschile come la sicurezza informatica. Una vita, la sua, cominciata anni prima in una famiglia disfunzionale e violenta, che finisce letteralmente a pezzi non appena comincia a seguire i messaggi che qualcuno lascia come briciole di pane sulla sua strada. Gli indizi, sotto forma di animali esotici impagliati, diari segreti, codici cifrati, ecc., la risucchiano nella rete carismatica di Silvina, il personaggio guida che dà le carte e manda avanti la storia, sfuggente e indefinibile quanto le sue idee su come salvare il mondo, che fino all’ultimo sembrano oscillare tra Greta Thunberg, Ted Kaczynski e Thanos. Sulle sue tracce Jane sacrifica, senza pensarci due volte, affetti, lavoro e figlia assieme a qualsiasi parvenza di empatia o socialità residue.
Si può definire Colibrí Salamandra un thriller climatico, a patto di allineare poi gli elementi narrativi che lo legano come fili rossi alla vasta tradizione del romanzo americano. Per prima, forse, la linea hard boiled, evocata già nella back story – la ricerca di una figlia ribelle in fuga dal padre miliardario senza scrupoli . Ma è soprattutto la fisicità da incassatrice della protagonista, che si improvvisa maldestramente detective, in un gioco che non conosce e di cui impara a sue spese le regole , sia nel ruolo di cacciatrice che di preda, a richiamare il confronto con i corpi massicci ma asessuati degli anonimi “Continental Op” di Dashiell Hammett. Anche a un’analisi superficiale, le impronte letterarie risultano davvero troppe per essere elencate. L’arco narrativo di Jane, non appena il suo mondo familiare scompare e sprofonda nel nulla, assorbito nel perturbante “mondo di Silvina”, del resto, si sdoppia e prosegue su due piani intrecciati e distinti: da una parte i cartelli e i trafficanti psicopatici alla Don Winslow, i fantasmi di un mondo paranoico vicino parente di Thomas Pynchon, in dialogo, a loro volta, con i fantasmi da body horror della sua infanzia; dall’altra il sentimento della wilderness, che si fa strada con il suo carico di influssi letterari, da Cormac Mccarthy in giù, insinuandosi lentamente nella coscienza della protagonista.
Il sentimento per la natura non emerge dalla sua contemplazione o presunta bellezza che, se è mai esistita, ora non esiste più. Nella coscienza di Jane si fa strada nella vita fuggiasca, divenuta boschiva, una volta tagliati i ponti con il passato; nell’ affezione quasi totemica per gli animali estinti a causa del cambiamento climatico e della brutalità del profitto; nel senso di estraneità e di imbarazzo che permea i suoi rari incontri con altri esseri umani. Ma tanto più rifugge dalle rovine della società che conosceva, tanto più la storia di Jane si scopre implicata, suo malgrado, nelle responsabilità della parabola collettiva, al momento assorbita dal suo imminente finale di partita, disarticolata e incapace di uno sguardo differente, non esclusivamente umano, che la specie sapiens, o quello che ne resta, possa in futuro fare suo. Così, la scelta finale della protagonista, maturata in cortocircuito con le utopie da cupola geodetica officiate da Silvina e dal suo circolo magico, non suona affatto come una tardiva conversione quanto come l’accettazione di un principio speranza di fronte alla prospettiva dell’estinzione.
Vandermeer riesce qui a incastrare entrambe le spinte, lo sviluppo dei personaggi e l’avanzamento dell’azione, lungo le stazioni di un viaggio americano di sola andata. Lo seguiamo, catturati da una trama familiare resa definitivamente aliena, mentre risolve e imbullona, una dopo l’altra, le corrispondenze tra i molteplici piani narrativi con tecnica sperimentata, asciutta, a tratti magistrale. Un thriller che, guardando oltre ai codici e all’immaginario new weird, racconta il Grande Romanzo Climatico mirando senza troppi giri direttamente al cuore della letteratura moderna. Il risultato, comunque lo si valuti, è un romanzo sostanzialmente originale, forte nelle ambizioni e nella scrittura, con cui occorrerà fare i conti.