Scoprii Jean-Jacques Langendorf nei primissimi anni ’80, quando la traduzione italiana Adelphi (1982) del suo primo romanzo, Una sfida nel Kurdistan, uscito in originale nel 1969 ma passato da principio sotto silenzio, conferì finalmente una certa meritata risonanza al suo nome. La storia del giovane avventuriero che – non per adesione ideologica ma per semplice gusto dell’azione – vuole diventare il Lawrence d’Arabia del Terzo Reich, cercando di sobillare a favore di Hitler i curdi contro la dominazione britannica in Mesopotamia, mi affascinò a tal punto che ne trassi una sceneggiatura cinematografica tentando, ovviamente senza fortuna (e senza minimamente preoccuparmi – da ragazzo quale ero – della questione dei diritti d’autore…), di realizzarla o di proporla a chi la realizzasse. Negli anni immediatamente seguenti lessi quanto altro potevo dello scrittore, il secondo romanzo del 1973, uscito nel 1980 per Adelphi, Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, e le due raccolte di racconti brevi pubblicate da Guida nei primi anni ’90, La contessa Graziani e La fine di una dinastia. La notizia che Settecolori avrebbe tradotto – dopo l’interessante saggio di Langendorf sulla neutralità svizzera, Neutrale contro tutti. La Svizzera nelle guerre del ’900 – anche il suo romanzo più lungo, La nuit tombe, Dieu regarde, uscito nel 2000, non poteva quindi non rallegrarmi.
Langendorf, nato nel 1938, francese di nascita, svizzero di cittadinanza e viennese d’adozione, germanofono nella lingua quotidiana e francofono in quella letteraria, polemologo e storico militare, direttore di ricerca presso l’Institut de stratégie comparée di Parigi, era stato in gioventù, a Losanna, un militante anarchico condannato a sette mesi di carcere per l’incendio dell’ambasciata spagnola (franchista) a Ginevra, e animatore di una rivista altrettanto incendiaria chiamata niente meno che “Ravachol”. Negli anni più tardi si era poi calmato, fino a diventare sostanzialmente un conservatore, innamorato del vecchio ordine militare prussiano, quello di von Clausewitz e di Bismarck, e dell’amministrazione imperial-regia asburgica. Una particolare sensibilità nel saper evocare figure romantiche, lucide eppure distaccate, inguaribilmente perdenti, di piccoli aristocratici e ufficiali di carriera, sul crinale di un Ancien Règime in fase di crollo, o già definitivamente sprofondato, che compaiono costantemente e così vividamente nella sua narrativa, fa di lui l’unico autore contemporaneo capace di mantenere presente un mondo e una visione del mondo: un altro apolide del pensiero affine a demiurghi letterari trascorsi come Alexander Lernet-Holenia o, ancor di più, Joseph Roth, anche lui un po’ socialista, un po’monarchico. Eppure al comparire del suo primo romanzo, il sulfureo protagonista descritto, profondamente sedotto, come lo scrittore stesso, dal Medio Oriente e dal mondo islamico, ma consegnato fino in fondo al suo ruolo inderogabile e cinico di pedina sullo scacchiere bellico nazionalsocialista, indusse qualche critico troppo zelante a rinfacciare a Langendorf perfino un sospetto di criptofascismo.
Il romanzo appena pubblicato da Settecolori, mantiene e conferma tutte le nostre più rosee aspettative: le vicissitudini dell’avventura marittima e della guerra – in questo caso la guerra di corsa al principio della Prima guerra mondiale nei mari del sud: quasi lo stesso scenario, per chi ama Hugo Pratt e Corto Maltese, di Una ballata del mare salato – il fascino dell’Oriente e del mondo arabo – qui le province periferiche dell’Impero Ottomano e lo Yemen – alternato a quello del vecchio mondo europeo – parate militari e feste in ambasciata, Schlösser asburgici e destrieri al galoppo attraverso infinite pianure galiziane – personaggi affascinanti e cavallereschi in impeccabile uniforme, almeno quando le circostanze lo permettono, e un ritmo cadenzato che alterna la descrizione poetica, alla riflessione filosofica, all’azione animata e talvolta brutale. Ma non si tratta certo di un semplice romanzo di guerra o di avventura, in qualche commento pubblicato dall’editore ho letto, a qualificare il testo, l’aggettivo omerico, e non mi pare affatto un’affettazione: la dimensione epica non è data soltanto dai fatti narrati ma soprattutto dalla prospettiva che ce li mostra, una prospettiva dall’alto, che prevede una presenza metafisica (o il fantasma morente di tale presenza) in mezzo agli uomini; a tal proposito non si dimentichi il titolo: scende la notte, Dio guarda. Non aggiungo altro su questo e lascio al lettore il piacere della scoperta.
Come altre volte Langendorf si ispira a fatti storici realmente accaduti (allegando in appendice una cospicua bibliografia), in questo caso le avventure belliche dell’ultima nave corsara, l’incrociatore leggero SMS Emden, della Marina imperiale tedesca, comandata dal capitano di fregata Karl von Müller, che percorse circa 30.000 miglia nautiche catturando e affondando diciassette mercantili, bombardando i depositi di carburante di Madras e attaccando il porto di Penang, dove furono affondati un incrociatore russo e un cacciatorpediniere francese. Il comandante von Müller, viene rappresentato come realmente era, un uomo cavalleresco che evacuò sempre gli equipaggi dei mercantili catturati prima di affondare i navigli, trattando i prigionieri con rispetto e riportandoli a terra nel primo porto neutrale disponibile: fu ammirato e stimato anche dai suoi avversari. Dopo l’affondamento dell’Emden, colpito dall’incrociatore australiano HMAS Sydney nel novembre del 1914, presso le isole Keeling nell’Oceano Indiano, con 131 tra ufficiali e marinai uccisi e 65 feriti e la cattura del capitano, le peripezie continuano però per il piccolo distaccamento tedesco sbarcato sull’isola Direction agli ordini del tenente von Mücke, che impossessatosi di un piccolo schooner, l’Aysha, e mettendolo in condizioni di navigare, dopo una fuga di otto mesi e di 11.000 chilometri percorsi, un cambio di nave a Sumatra, l’attraversamento via terra della parte sotto controllo ottomano dello Yemen risalendo poi lungo il Mar Rosso fino a Gedda, riesce a raggiungere Istanbul nel giugno del 1915.
Ai personaggi storici, come von Müller o von Mücke, Langendorf ne aggiunge uno parzialmente (solo parzialmente) immaginario, il barone Friedrich Wolf Helmhard von Hohberg, tenente di riserva del 7° reggimento Ulani “Arciduca Carlo-Luigi” dell’Imperial-Regio esercito, distaccato in missione presso la Marina tedesca, poliglotta, orientalista, membro dell’intelligence austro-ungarica sotto una copertura di archeologo (che per altro è davvero). Hohberg è un testimone distaccato, un perpetuo estraneo, austriaco fra tedeschi, cavallerizzo fra marinai, non ha un preciso incarico sulla nave dove è una specie di ospite, e, proprio per questo, suo è il punto di vista più obbiettivo e preciso per raccontarcela: alla linea del presente della crociera, si alterna però quella del passato, la memoria della precedente vita e carriera di Hohberg – il viaggio da bambino col padre al Cairo, dove non è mai riuscito a ritornare; l’educazione del giovane ufficiale di cavalleria in Galizia; la passione per l’Oriente, lo studio assiduo dell’arabo e del turco, i viaggi attraverso l’Impero Ottomano che gli garantiscono un doppio ruolo di archeologo orientalista e di informatore e spia presso la Sublime Porta, per conto dei Servizi segreti asburgici. Interposte in parallelo alle reminiscenze del barone austriaco compaiono anche le annotazioni dai taccuini del compatriota Eduard Glaser, archeologo davvero esistito, che introdurrà Hohberg allo studio delle antiche iscrizioni sabee dello Yemen e alla misteriosa “profezia di Almaqah”, di cui ha ritrovato la prima parte incompleta (e sarà Hohberg, dopo la morte di Glaser a rinvenire fortunosamente anche la parte finale dell’iscrizione e poterne leggere completo il messaggio apocalittico).
E proprio il messaggio di Almaqah, apparentemente marginale rispetto alla trama, è il leitmotiv che conferisce ad essa una precisa istanza metafisica. L’antica attestazione sabea annuncia infatti l’avvento di uomini di ferro che il ferro ucciderà e di un’umanità orfana dalla quale gli dei si sono ritirati per sempre, consegnandola alla perdizione come un neonato che, abbandonato sulla vera di un pozzo, finisce per caderci dentro. La Grande Guerra segna la linea di demarcazione tra il vecchio mondo in cui perfino nei conflitti era possibile il rispetto, il limite, un’etica e addirittura un’estetica, e il mondo nuovo della tecnica e del cieco meccanismo, dello scontro frontale di puri materiali – per dirla alla maniera di Ernst Jünger – dove ormai non c’è più spazio per uomini come quelli dell’Emden: il dado è tratto, il destino segnato. Alla fine del tormentato nostos su una nave battente la bandiera del nemico, approdando in una Trieste non più sua, ritrovando a Dross il castello paterno saccheggiato e una patria frantumata e sconvolta, Hohberg sa ormai interpretare i segni dell’irrimediabile caduta: convocato a Berlino da von Mücke, proprio mentre i frei korps stanno reprimendo la Spartakusaufstand, riceve dall’ex commilitone l’invito ad unirsi ad un movimento che, fuori dagli impacci illusori del parlamentarismo, risvegli e riscatti l’onore dei tedeschi umiliati a Versailles. Il barone cortesemente rifiuta. A questo punto, in silenzio e con dignità, non gli resta altro che recuperare la fedele Luger e cercarsi un posto appartato per compiere l’unico possibile gesto coerente: così farà.