“È nel DNA della nostra azienda”. Ci confrontiamo oggi con le metafore e le promesse della genetica, anticipate nell’immaginario pop da film come Gattaca o Jurassic Park, nel gergo colloquiale, non solo manageriale, e nei modi di dire di tutti i giorni. Accediamo alle competenze della biologia molecolare attraverso il lessico prima che nella confidenza, reale e ipotetica, con cui ci inoltriamo nelle tecnologie geniche di editing e di correzione molecolare.
Il successo dello Human Genome Project, il più importante laboratorio collaborativo di tutti i tempi, conclusosi venti anni fa con la mappatura e il sequenziamento del genoma umano, ha posto una sostanziale ipoteca sugli sviluppi futuri della genomica come sulle premesse della biologia molecolare. Sviluppi e premesse teoriche, però, non sempre e necessariamente vanno a braccetto: il successo di una tecnologia che “funziona” non ferma per questo l’avanzamento della ricerca scientifica. Così l’impasse della fisica teorica non impedisce oggi l’invenzione dei computer quantistici o, come suggerisce un po’ compiaciuto lo stesso Jean-Jacques Kupiec in un’intervista, non ha impedito in passato ai romani di usare le catapulte ignorando le leggi galileiane e la gravità terrestre.
Così il dogma centrale della biologia molecolare, ovvero l’unidirezionalità dell’informazione genetica – dagli acidi nucleici del DNA alle proteine – dopo sessanta anni resiste ora assediato dai riscontri dell’epigenetica e dal peso crescente che viene attribuito all’ambiente nella retroazione sulle cellule dell’organismo e sul loro metabolismo. Le frontiere della biologia, del resto, non coincidono con quelle del determinismo genetico e guardano oggi anche alla teoria della complessità, alla fisica quantistica e ai fenomeni emergenti di auto-organizzazione del vivente, ipotizzati esempio dalla scuola di Stuart Kauffman. O, anche, agli studi sulle variazioni stocastiche cellulari, richiamati dall’autore in questo libro.
Kupiec, ex-biologo ricercatore e epistemologo, va anche oltre e da una trentina d’anni teorizza un darwinismo radicale che stringa in un unico abbraccio l’ontogenesi dell’individuo con la filogenesi della specie o – per meglio dire, secondo la sua definizione – una filo-ontogenesi che emancipi definitivamente il flusso del vivente dai concetti di individuo e di specie. Questa concezione è “anarchica” in quanto riporterebbe il caso e la selezione naturale anche al centro dell’embriologia e dell’organizzazione cellulare. Va detto che la posizione di Kupiec, benché intellettualmente suggestiva, appare oggi isolata nel contesto scientifico e, a scanso di simpatie ideologiche, potrebbe anche richiamare alla mente l’invito di Errico Malatesta rivolto ai militanti a diffidare de “l’inventore che professa, più o meno sinceramente, idee anarchiche e si dà l’aria del ribelle e tuona contro la scienza ufficiale” (Pensiero e Volontà, 1924).
La concezione anarchica del vivente si candida come teoria critica alternativa, allo stato dell’arte, meno in virtù di riscontri sostanziali e più in virtù dei limiti del programma genetico stesso, che l’autore ricostruisce attraverso una critica serrata dal punto di vista storico ed epistemologico, attraverso un secolo e mezzo di biologia, offrendo ai lettori anche la parte più interessante del libro. La scienza dell’ereditarietà ha un peccato d’origine aristotelico che, secondo Kupiec, l’ha portata ad adottare da subito come dogma la corrispondenza univoca tra gene e carattere, prima ancora di poter fornire una definizione non ambigua di cosa sia un “gene”. La genetica riscopre Mendel, lo adotta come padre nobile e – a partire dagli anni ’20 del secolo scorso – si assegna una patente di scienza “dura”, predittiva, con una linea spesso riduzionista rispetto agli esiti anche contraddittori della ricerca scientifica. La scoperta del DNA, inteso come “codice”, ne accelera il matrimonio con la nascente scienza dell’informazione e sembra consacrare nel tempo una visione discreta e segmentata del vivente che si accoppia operativamente con l’affermazione del digitale nella tecnica sperimentale. La decostruzione che ne fa Kupiec, nella prima parte del libro è lucida, documentata e sicuramente vale la lettura al di là delle conclusioni che ne trae nella seconda.