Nella prima metà degli anni Settanta, anni dopo l’uscita sul mercato italiano, passava nelle radio il singolo “Je T’aime… moi non plus”, forse per rivincita dopo anni di censura radiofonica; circolava questa leggenda metropolitana secondo cui Jane Birkin aveva davvero orgasmi multipli nel corso della registrazione, non ricordo più quanti. I miei compagni di scuola per questo amavano la canzone, e io per lo stesso motivo la snobbavo. Però ogni volta che l’ascoltavo in radio, rimanevo catturato dal motivo musicale. Poi Serge Gainsbourg praticamente scomparve dalla programmazione delle nostre radio, e ancora oggi viene ricordato da chi conosce il suo nome (non molti) più che altro per quella canzone considerata, decisamente a torto, “pruriginosa”.
È quindi con una certa sorpresa che ho scoperto una decina di anni fa, l’immensa popolarità di cui ancora gode in Francia, e soprattutto la sua vasta discografia, di una qualità e una varietà che difficilmente reggerebbero il paragone con qualsiasi altro artista pop contemporaneo. Adesso, una parte considerevole delle sue incisioni, anche quelle di altri artisti francesi per i quali ha scritto canzoni, fanno parte della mia collezione domestica.
Da una parte, quindi, Serge Gainsbourg è pressoché sconosciuto in Italia, dove c’è una consapevolezza molto superficiale della musica francese; dall’altra parte ha un posto d’onore in un consistente zoccolo duro di ammiratori italiani, in generale melomani in grado di leggere i testi in originale, per cui non è mai cessata la pubblicazione di volumi biografici, anche in traduzione: Sylvie Simmons nel 2004, Daniele Bauducco nel 2006, Tony Frank nel 2011, Boris Battaglia nel 2018. Persino l’unico romanzo scritto da Gainsbourg, Evguénie Sokolov, è stato inaspettatamente tradotto con il titolo Gasogramma nel 2011 presso Guidemoizzi.
L’avvincente monografia Gainsbourg SCANDALE!, che esce per PaginaUno, dunque continua questa tradizione, rarefatta ma solida. Nonostante il nome esotico, Jennifer Radulović è italiana, medievista di formazione, con esperienza nel mondo della comunicazione. Il libro è scritto con un intento misto, a cavallo tra la divulgazione storia, per lo meno storia del costume, e l’omaggio del fan. Si rivolge sia a chi ignora completamente la vita e l’opera del più raffinato campione della canzone d’autore francese, sia a chi lo conosce e apprezza, come il sottoscritto, e si gode l’inquadramento storico negli anni più innovativi della musica pop. Dalle pagine traspare l’entusiasmo dell’autrice per la personalità e l’opera di un grande artista, che non ha ancora trovato il giusto riconoscimento nella musica mondiale a causa dell’anglofilia acritica dell’industria discografica.
Figlio d’arte (i genitori erano ebrei ucraini fuggiti da Odessa a causa dei pogrom antisemiti, e anche per fuggire al nuovo potere bolscevico), Lucien Ginsburg, questo il vero nome, attraversa un’infanzia non propriamente felice. A parte la necessità di nascondersi durante l’occupazione nazista per fuggire alla deportazione, la sua giovinezza è caratterizzata dalla scarsa autostima e dalla consapevolezza di essere davvero poco avvenente: difficile da credere, considerato che non molti anni dopo sarebbe divenuto un autentico sex symbol, molto ricercato dalle donne e impegnato sentimentalmente con l’attrice più desiderata del Novecento, Brigitte Bardot.
La cosa più colpisce del fenomeno Gainsbourg (il nome d’arte che ha scelto è un calco linguistico sul pittore inglese Thomas Gaisborough, contaminato con il proprio cognome israelita) è la straorinaria versatilità della sua proposta musicale. Quasi a ogni LP si cimenta in un genere nuovo, con risultati impressionanti, come se voglia tipizzare una galleria di stili musicali del XX secolo: ai suoi esordi, la canzone francese degli anni Cinquanta, l’esistenzialismo alla Boris Vian, il jazz delle caves, per arrivare ai dischi della maturità: il concept-album L’histoire de Melody Nelson, con le sue sonorità d’avanguardia per l’epoca e l’uso del recitato; l’incredibile Rock around the bunker, un disco di r’n’r puro completamente dedicato al nazismo, con testi beffardi che giocano sul contrasto tra le sonorità rock e l’argomento impegnato; Aux armes et cætera, spudoratamente reggae, registrato in Giamaica e destinato a lanciare definitivamente in Francia la musica dell’isola di Bob Marley; Love on the beat, con sonorità da disco music anche nei testi più dissacratori, come la celebre e ambigua (per il perbenista che vuol trovare ambiguità ovunque) “Lemon Incest” cantata insieme alla figlia minorenne Charlotte, oggi affermata attrice di livello internazionale.
Jennifer Radulović è in grado di prendere per mano il lettore e condurlo nel mondo della musica francese, dai tardi anni Cinquanta in poi, perché la vita di Gainsbourg è così intessuta con la storia della musica leggera da risultare inestricabile. Può sembrare in alcuni passaggi che l’autrice dia per scontati nomi, avvenimenti e fenomeni di costume dei quali si è perduta la memoria comune — ed è un peccato, perché gli addetti ai lavori in Italia avrebbero molto da imparare dai cugini transalpini, come già si resero conto i grandi artisti degli anni Sessanta: Fabrizio De André, Paolo Conte, Luigi Tenco e altri. Le domande che il testo pone — nomi, canzoni, eventi di costume — sono quesiti che potrebbero anche stimolare il lettore curioso a approfondire, perché la musica francese di fine secolo scorso è tutta lì per noi, accessibile, come abbondante documentazione e materiali sonori in rete. Ancora minori sono le difficoltà a reperire materiale iconografico su Gainsbourg: lui e Jane Birkin sono la coppia più fotografata di tutti i tempi nel mondo dello spettacolo, ci ricorda Radulović, quasi un marchio d’autore che negli anni Settanta divenne il simbolo di un mondo lontano degli engagé, la generazione impegnata uscita dalle lotte del Maggio, un fenomeno politico che il Nostro disdegnava. Nato in una famiglia fuggita a causa della rivoluzione, Gainsbourg non nascose mai la propria antipatia per l’estrema sinistra: per cui abbiamo questo fenomeno artistico abbastanza atipico, un uomo che si esprime in modi di aperta provocazione, dimostra una profonda avversione al nazismo, eppure è tutto chiuso in cuna nicchia a-politica in anni nei quali la politica è invece tutto, e il disinteresse stesso verso ciò che è politico è di per sé una dimostrazione di originalità.
Meno presente nell’immaginario comune, perché cupo, involuto, macchiato di episodi poco edificanti, è invece il periodo che Gainsbourg visse dopo la separazione da Jane Birkin. Il personaggio pubblico si sdoppia, e il dottor Jekyll partorisce un signor Hyde (ai due protagonisti del romanzo di Stevenson, Gainsbourg dedicò anche una canzone): Gainsbourg genera Gainsbarre, alcolizzato, attaccabrighe, trascurato, un incubo per la sua compagna di vita — sebbene ancora innovatore, originale e persino geniale quando mette le mani su un pianoforte per comporre uno dei molti brani che per nostra fortuna ha lasciato dietro di sé.
Il libro di Jannifer Radulović è un’efficace introduzione a un mondo nel quale si può entrare facilmente, e dal quale si faticherà a uscire.
Serge Gainsbourg muore prematuramente nel 1991, al culmine di un periodo infelice di eccessi privati e successi pubblici. Mi piace ricordarlo con questo giudizio tratto da Le désespor des singes, autobiografia di Françoise Hardy, grandissima interprete a sua volta dimenticata in Italia a partire dagli anni Settanta:
«Nous fûmes sûrement très nombreux à avoir le sentiment que son départ signait la fin non seulement de toute une époque mais aussi de nostre jeunesse.»
Siamo di sicuro stati in molti a provare la sensazione che la sua scomparsa segnava la fine non soltanto di tutta un’epoca, ma anche della nostra gioventù.