Sfruttando quei paradossi che sono caratteristici della scrittura letteraria rispetto al dipanarsi dello spazio e del tempo, il Microteatro psicopático dello scrittore spagnolo Javier Tomeo ha avuto una lunga vita, o almeno una lunga gestazione: le sue Storie minime sono nate con questo primo titolo, “microteatro psicopatico”, negli anni Sessanta del Novecento, per poi essere raccolte e pubblicate come Historias mínimas nel 1988. Quasi quarant’anni dopo trovano ospitalità in traduzione italiana nel catalogo di Occam, casa editrice da anni attenta all’opera di Tomeo, avendone proposto negli ultimi anni altri due titoli preziosi come Gli amanti di silicone e Il cacciatore di leoni. Così anche lo stesso scrittore prolunga la propria ricezione in Italia, che aveva conosciuto una certa fortuna tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso; in questo caso, si sfrutta il potenziale a propria volta paradossale di una collezione di testi brevissimi, dallo stile spesso minimale (senza per questo prodursi in un minimalismo epigonico), ma capaci di disegnare traiettorie che esorbitano di molto, se non anche trascendono il loro limitato spazio sulla pagina.
È infatti a distanza dalla lettura che prendono sempre più corpo i personaggi, tra loro sempre molto diversi, delle 44 Storie minime raccolte nel volume, e che vanno dal “filosofo nautico” del primo testo, che vuole rinchiudere l’intero oceano in una bottiglietta, ai bagnanti che si raccolgono intorno a una “balena imprudente spiaggiata sulla riva”, nell’ultima. In fondo, Tomeo è stato autore di raccolte simili, per concezione e architettura, a queste Storie minime, e una di queste – Zoopatías y zoofilías, del 1992 – è un bestiario in piena regola.
A svettare sui personaggi sono tuttavia i dialoghi, che contribuiscono a definire queste storie come “microteatro”, complicando ulteriormente quell’appiglio di genere alla microficción come genere effettivamente di grande fortuna in ambito ispanico: il riferimento è certamente implicato nel lavoro di Tomeo – nonché nell’opera del traduttore, Loris Tassi, fautore tra i più importanti, negli ultimi anni, dell’importazione di questo genere in Italia – ma sono infine le poche o tante battute dei personaggi a costituire il nucleo di senso (o di deriva del senso) di ogni “storia”.
Nei brevi scambi di battute, di qualche riga o al massimo di qualche pagina, emerge spesso un senso dell’assurdo – dell’esistenza, ma anche della letteratura (o meglio di quella letteratura che cerchi di ritrovare il bandolo della matassa, secondo un intendimento che non è certo lo stesso di Tomeo) – che, ancora una volta, non dev’essere scambiato per la definizione trita e ritrita di “teatro dell’assurdo”. Per quanto alcuni personaggi e alcune situazioni risentano dell’influenza beckettiana, chi legge si ritrova più che altro nel “cinema dell’assurdo” – se così si può definire, semplificando non poco – di Luis Buñuel, peraltro di origini aragonesi proprio come Tomeo, anche se di qualche generazione precedente rispetto al nostro autore, nato nel 1932 e scomparso nel 2013.
Su questo legame è già intervenuta Francesca Lazzarato, nella sua bella recensione per il manifesto del 22 dicembre 2024; in queste righe, però, sembra sufficiente evocare la filmografia di Buñuel, e tutto il suo immaginario surrealista e post-surrealista, per ampliare l’immaginario delle storie minime di Tomeo (sulla base, naturalmente, delle poche indicazioni “narrative”, o anche “di scena”, già fornite dall’autore) e veder così trasformare il suo microteatro psicopatico in un superteatro psicoattivo, dall’onda lunga ancora oggi.