Con A/metà, il catalogo di Safarà – casa editrice da sempre attenta alla traduzione di libri anomali, eccentrici, esorbitanti rispetto alla letteratura mediamente tradotta in lingua italiana, sia per provenienza culturale sia, soprattutto, per qualità – si arricchisce di un nuovo e importante tassello. Il libro d’esordio di Jasmin B. Frelih, autore sloveno classe 1986, si è infatti aggiudicato lo “European Union Prize for Literature”, premio che è garanzia di sicuro interesse letterario e critico; garanzia poi confermata da un romanzo al tempo stesso divertente, agghiacciante e certamente fluviale: un’opera-mondo che muta, sotto gli occhi di chi si avventuri a leggerlo, in un esercizio di fiction speculativa che quel mondo lo distorce e lo trasforma fino a farne qualcosa di totalmente altro.
A un certo punto, infatti, interviene un “Grande Taglio”, ossia una sorta di fenomeno distopico non troppo precisato, che non soltanto separa e ricuce le coordinate spaziotemporali della narrazione, ma ne fa collassare anche le possibili interpretazioni. Accade così che le tre sezioni del romanzo, in alternanza tra loro, propongano tre narrazioni – rispettivamente ambientate in una Tokyo ridiventata Edo, in Slovenia e negli Stati Uniti – che finiscono poi per convergere (e al tempo stesso divergere) nella parte conclusiva con un effetto che le recensioni/claim riportate in quarta descrivono variamente come “soverchiante”, “da capogiro”, o ancora come “rompicapo ingegnoso”.
Questi sono caveat piuttosto utili per chi si appresti a leggere il libro, perché ci si troverà di fronte, in effetti, a un esercizio speculativo, non di rado filosofico, che richiede preparazione fisica, più che culturale: la sperimentazione letteraria ha qui poco di cerebrale o, come si suol dire, di intellettualistico; si riflette, in primo luogo, in una lingua esplosiva, ossia adatta a seguire molteplici direzioni, per poi assecondare improvvisi ritorni centripeti. Un tour de force che fa del libro, nella mia esperienza di lettore, un vero page turner per le prime pagine, grazie a una verve che poi si acquieta o riprende improvvisamente vigore, senz’alcuna soluzione di continuità; se questo richiede un notevole dispendio di energie per chi legge, lo è stato, presumibilmente, anche per chi ha tradotto il libro: sfida per la quale Michele Obit, poeta ed esperto traduttore, si rivela sicuramente all’altezza, e non tanto per la resa traduttiva in sé (impossibile da controllare, per chi scrive) quanto per la prosa sfavillante che ne esce, in lingua italiana.
Partendo da questa considerazione, si può forse concludere che Frelih ci abbia posto di fronte a un’opera lievemente disomogenea e diseguale al suo interno, tra slanci immaginifici e condensazioni gnomiche, invenzioni linguistiche scintillanti e barocchismi un po’ inutili. L’autore, tuttavia, ha sapientemente collocato il proprio libro d’esordio in uno spazio di transizione tra le opere-mondo in voga fino a qualche tempo fa (con un dualismo locale-globale che rinvia agli anni Novanta e ai primi anni Duemila e con un confronto America-Giappone che rimanda ancora più indietro, agli anni Ottanta) e la recente esplosione della speculative fiction: un passaggio certamente ineludibile, affrontato dall’autore in tutta la sua complessità, e senz’alcun artificialismo; una sperimentazione che, come per chi scrive, potrà sicuramente risultare affascinante per molti.