Si leggono le prime righe, un po’ per curiosità, poi, senza comprendere il perché, si arriva alla fine di questo che l’autore, con una semplicità disarmante, definisce come “un breve racconto di mia esperienza sulla vita per strada”. Forse è un libro che neppure andrebbe recensito, perché il parlarne, l’interpretarlo, l’incastonarlo dentro qualche teoria o un gusto letterario rischia di sporcarlo, di rompere il delicato equilibrio tra vicenda e lingua, di dileguare quello sguardo nella realtà che lo rende un romanzo unico. Non può che esserci, da parte di noi lettori e recensori benestanti, lontani dalla strada ma spettatori attenti della strada, come la speranza di una liberazione, una liberazione per noi che pur avendo molto siamo insoddisfatti, melanconici, sconfitti. Eppure nel racconto di Janek – e usare il nome è per me quasi un obbligo a causa del rapporto che si è creato leggendo le sue parole – non si percepisce mai invidia, né rabbia né astio, anche se il suo sguardo a ritroso ci racconta di molti errori che ritiene di avere compiuto. Questo atteggiamento privo di livore verso il consumismo che ci corrode, la semplicità con cui descrive i fatti della vita e le sue svolte troppo brusche, l’assoluta mancanza della ricerca di una pietà anche solo opportunistica sono stati in grado di offrire un punto di vista etico dell’esistenza senza l’inquinamento di alcun moralismo. La vita di Janek diventata immediatamente espressione narrativa perché diretta, sottratta a ogni ragionamento estetico o opportunismo, quasi fedele a quell’ammonimento che recita astrusamente “ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, ci offre con le sue parole l’intensità dell’esperienza di strada, di quel qualcosa che ci attira e ci spaventa.
In “Che cos’è la scrittura?”, all’inizio de Il grado zero della scrittura, Roland Barthes aveva proposto questa osservazione tecnica: «La lingua è dunque al di qua della Letteratura. Lo stile è quasi al di là: le immagini, il lessico, il fraseggiare di uno scrittore, nascono dal suo corpo e dal suo passato e a poco a poco diventano gli automatismi stessi della sua arte. Cosi, sotto il nome di stile, si forma un linguaggio autarchico che attinge solo nella mitologia personale e segreta dell’autore, in quello stadio ipofisico dell’espressione in cui si forma la prima coppia di parole e di cose, in cui si fissano una volta per tutte i grandi temi verbali della sua esistenza. Qualunque sia il suo grado di raffinatezza, lo stile ha sempre qualcosa di grezzo: è una forma senza uno scopo, è il prodotto di un impulso, non di un’intenzione, è come una dimensione verticale e solitaria del pensiero». Storia di mia vita, nell’insofferenza che ha segnato la lettura e rilettura di questo libro, mi ha spinto a ricercare il saggio di Barthes che non toccavo da decenni e infatti ho trovato quasi un conforto leggendo questa idea per cui il linguaggio attingerebbe alla mitologia personale e segreta dell’autore.
Credo che sia questo il motivo per cui il romanzo entra dentro al lettore, perché usa quel linguaggio autarchico che è capace di trasportare una parte dell’esistenza di Janek nella mia. Credo che la scelta editoriale di trattare questo testo con grande rispetto, riducendo al minimo gli interventi, offrendolo alla lettura in una lingua migrante, sia stato uno degli elementi che hanno contribuito a dare bellezza a questa esperienza di lettura. Janek conosce molte lingue, ma la storia di sua vita in Italia richiede che sia il suo italiano a estrarla dalla memoria e a renderla attraverso la lingua con cui quelle vicende si sono costruite e che ha quotidianamente usato per parlare con le etnie diverse che hanno vissuto con lui.
L’esperienza di questa lettura è però solo in parte umana, l’altra è politica, è la narrazione di cosa consista quel tipo di vita, come sono fatte le giornate, come si si muove all’interno dell’altra Roma alla quale certamente diamo solidarietà ma, assieme, anche distanza. Christian Raimo è uno dei personaggi di questo libro ed è una delle tante persone che hanno saputo accorciare la distanza tra i tanti mondi che sanno vivere paralleli senza incontrarsi. Mentre leggevo Storia di mia vita mi veniva inevitabilmente una domanda ricorrente: ma chi sono gli italiani? Poco incline all’idea di patria e ritenendo la nazione un elemento di cui faccio parte senza aderirvi come entusiasmo, ma tecnicamente importante per il solo fatto che ci vivo dentro e sono soggetto alle sue regole, sperando sempre in un futuro in cui le nazioni non ci siano, il saggio di Raimo Contro l’identità italiana (Einaudi, 2019) complementa la storia e il romanzo di Janek, perché gli italiani sono quelli che incontri quando attraversi il parco dei cani descritto nel romanzo, quelli che vedi ogni giorno calcare i marciapiedi per mille motivi, quelli che respirano la tua stessa aria, quelli a cui affidi il lavoro o che ti recapitano i pacchi, quelli che sono in coda davanti a ogni servizio pubblico. Questa verità che si offre ai nostri occhi tutti i giorni viene costantemente avvelenata dall’idea che l’italianità vada cercata nel passato, in non ben definite memorie comuni, in guerre vinte e perdute, in tratti somatici caratteristici, in fantasiose comunità naturali. Il fascismo, al governo e no, esalta un passato che è costituito da elementi selezionati e falsificati allo scopo di sostenere progetti politici di dominio e violenza, e all’interno di questi progetti nostalgici s’intende riproporre in Italia il modello coloniale di razze dominanti e razze dominate.
Storia di mia vita comunque testimonia che il pecoreccio Blut und Boden che ammalia la nostra classe politica, chi per opportunismo chi per scemenza, si infrange nell’esperienza di solidarietà collettiva e quotidiana che aiuta Janek e la sua gente con tolleranza e sentimenti che coinvolgono il quartiere e istituzioni come la polizia e la sanità. In realtà, questa vita di tutti i giorni tra lavoro, amore, ubriacature, amicizia, forza e anche violenza è una storia di resistenza, come era stata la Resistenza romana che era stata vissuta come esperienza collettiva costruita da migliaia di piccoli gesti quotidiani, di aiuto verso gli sconosciuti, di dissidenza, di parole. Sono in molti ad aiutare Janek anche quando, come lui confessa, sbagliava ripetutamente; impossibile ricordarli tutti, come i volontari che portano cibo, il datore di lavoro, medici e infermieri, il custode di un impianto sportivo che offre le docce, una moltitudine che vede l’umanità e non il popolo fascio-leghista reazionario dedito al sangue e al suolo, come le persone che marciano nel corteo che chiude l’ultimo film di Ken Loach The Old Oak. Storia di mia vita è anche una storia felice ma è difficile, leggendo, evitare il magone.