A distanza di oltre due secoli dalla prima pubblicazione dei suoi libri, il dibattito su Jane Austen, complici gli innumerevoli adattamenti cinematografici e teatrali, i siti a lei dedicati, gli studi accademici e gli approfondimenti critici, è più vivo che mai. E se l’abbondanza di materiale su un’autrice tanto importante è di certo una fortuna, diventa tuttavia fondamentale tentare di orientarsi all’interno di un panorama così vasto, per non perdere di vista la qualità degli interventi che la vedono protagonista. Per questo, l’uscita del primo volume del Meridiano a lei dedicato, curato da un nome illustre come quello di Liliana Rampello e tradotto (per quanto riguarda i romanzi) da Susanna Basso, si presenta come una novità editoriale di assoluto rilievo, un faro nella vivacità del mare che anima i dibattiti su quest’autrice tanto amata dal pubblico quanto spesso vittima di letture superficiali che possono trarre in inganno rispetto allo spessore, alla complessità e alla modernità della sua opera.
Quest’ultimo punto, ovvero l’assoluta modernità di Jane Austen, è l’argomento su cui credo sia più utile soffermarsi, con l’aiuto del mirabile e corposo saggio introduttivo di Rampello, per fugare ogni dubbio in proposito: lungi dall’essere un semplice divertissement, una lettura di evasione che fa dimenticare le criticità del presente trasportandoci in un mondo di trine e merletti, la lettura di Jane Austen offre al lettore di oggi una chiave interpretativa suggestiva e profonda sulla società contemporanea.
I suoi romanzi più noti – di cui il primo volume dei Meridiani riporta Northanger Abbey, Ragione e Sentimento e Orgoglio e Pregiudizio, oltre a una selezione di testi tratti dagli Juvenilia, il romanzo epistolare Lady Susan, due lettere scritte dalla sorella Cassandra alla nipote Fanny Knight e l’Avvertenza del fratello Henry alla prima edizione, postuma, di Northanger Abbey e Persuasion – raccontano di donne alle prese con balli, serate mondane, amicizie e matrimoni. E sono stati scritti da un’autrice che ha passato gran parte della sua vita al sicuro tra le mura domestiche, circondata dall’affetto della sua famiglia d’origine.
In che modo è possibile affermare, in tutta serietà, che da tali romanzi possa scaturire uno spirito libero capace di indirizzare la riflessione sullo status della donna all’interno della società, allora come oggi? Scrive Rampello in un passaggio cruciale del suo saggio introduttivo: “Quel che affiora subito prepotente […] è il desiderio di felicità individuale, una tensione dominante verso la costruzione della propria soggettività, che apre al tema imprevisto della formazione di sé. Se fino a quel momento il romanzo settecentesco aveva per lo più rappresentato la donna secondo lo schema seduttrice/sedotta, o perbene/permale, e il matrimonio dunque come fine ultimo, interiorizzazione passiva della norma sociale – nessuna scelta, nessuna libertà, una formazione di ordine subalterno –, ora per la giovane protagonista austeniana il matrimonio è l’esito di una ricerca ben più cruciale, la sua stessa felicità.”
La rivoluzione austeniana parte, dunque, dal porre la donna al centro del proprio destino: essa non è più un semplice satellite nell’universo maschile circostante – in cui pur continua a muoversi – ma è il fulcro di un’azione che la vede parte attiva nella ricerca della propria realizzazione come individuo autonomo. E se la felicità può essere trovata nel matrimonio, questo non è in sé il punto d’arrivo obbligato di un percorso sociale prestabilito, quanto piuttosto il risultato di un lavoro di conoscenza di sé e dell’altro che consente, come nel caso di Elizabeth Bennet in Orgoglio e Pregiudizio, di migliorare se stessi e la propria relazione con il mondo esterno.
Come sottolinea Rampello, realizzazione e ricerca della felicità portano con sé un corollario fondamentale, perché aprono “al tema imprevisto della formazione di sé”. Se possiamo considerare il romanzo di formazione maschile come il simbolo letterario della modernità, è importante notare come l’eroina austeniana non si inserisca all’interno del percorso che proprio in quegli anni sta prendendo forma con il Wilhelm Meister goethiano – a cui seguiranno gli emblematici eroi di Maupassant, Stendhal o Dickens – perché, semplicemente, il tema della formazione femminile è da ricercare in tutt’altre tracce rispetto a quello maschile. Rampello entra così nella spinosa quanto attuale questione del “genere femminile” in letteratura, mostrando quanto sia poco efficace collocare semplicemente a latere della produzione maschile le opere di autrici donne, di fatto confinandole in una nicchia ad esse dedicata da dove potranno ben difficilmente esercitare la propria influenza. Scrive Rampello: “Le storie dunque possono essere due, ed è questo un punto dirimente […]. Bisogna […] cercare le parole per narrare un’altra storia, definitivamente altra, non alternativa o aggiuntiva. Esattamente quello che ha fatto JA, per prima e da vera maestra”.
Se i protagonisti del romanzo di formazione europeo maschile percorrono a grandi falcate le strade delle capitali, abitando ed esplorando il mondo esterno, Jane Austen, nel suo narrare l’altra storia, ha situato le proprie trame all’interno, tra i salotti e le stanze in cui le dame dell’epoca trascorrevano le loro giornate. E in questa scelta apparentemente scontata (e che nel corso degli anni è costata all’autrice svariate critiche sulla sua scarsa conoscenza del mondo e della Storia) riscontriamo invece in essa la volontà totalmente innovativa di far assurgere la quotidianità a vera protagonista. Ad attendere le eroine di Jane Austen non ci sono azioni rocambolesche, pericolose avventure o paesaggi mozzafiato, ma stanze ordinate, salotti in cui si conversa, si legge, si suona e si ricama, camere da letto che accolgono confidenze, sale da ballo in cui si giocano i destini dei personaggi.
A rileggerla oggi, in un momento storico così particolare come quello della nostra contemporaneità, in cui la casa è tornata al centro non solo della vita ma di molte riflessioni artistiche, e dove il genere dell’autofiction domina con la sua massiccia dose di quotidiano portato in primo piano, ci si stupisce della modernità insita nella sua visione del reale, quasi che cercando di aderire il più possibile al proprio presente sia riuscita a trascenderlo narrando una storia capace di attraversare il tempo.
In questo senso, l’edizione dei Meridiani si presenta a tutti gli effetti come un’opera imprescindibile per restituire una Jane Austen al contempo più fedele e più contemporanea: la nuova traduzione di Susanna Basso (per la prima volta è un’unica voce a tradurre tutti i romanzi) infatti, aderisce al testo originale e contestualizza ogni sfumatura linguistica non solo da un punto di vista semantico ma anche grafico – come si legge nella nota dell’editore, si è scelto, ad esempio, per la prima volta, di mantenere l’uso del “trattone”, largamente usato all’epoca e particolarmente utile nel conferire “un respiro particolare alla scrittura, restituendo al discorso un andamento esitante, a volte quasi l’efficacia teatrale di un balbettio.”
La bellezza della traduzione di Susanna Basso si avverte anche, se non maggiormente, nella perfetta resa dei dialoghi, cifra austeniana per eccellenza. È, infatti, soprattutto attraverso la loro voce, unica e caratteristica, che i personaggi prendono forma e creano quel legame speciale che li lega da un lato al lettore, dall’altro alla loro autrice, di cui avvertiamo la presenza anche nell’utilizzo del discorso indiretto libero, dove il sentire del personaggio – spesso, la protagonista – si intreccia con il sapere del narratore. Il discorso indiretto libero e i dialoghi sono altresì i luoghi privilegiati di un’altra peculiarità della scrittura di Jane Austen, su cui Rampello pone giustamente l’accento: l’ironia.
Presente fin dai primi scritti (gli Juvenilia) più che altro sotto forma di comicità irriverente o caricaturale, il tratto ironico, pur modificandosi e affinandosi negli anni, non lascerà mai la scrittrice: l’ironia dei romanzi di Jane Austen è l’indice di un’intelligenza che sa riunire levità e riflessione profonda, sorvolando con il giusto distacco e senza malignità alcuna i drammi dell’esistenza umana. Non solo: l’ironia, in Jane Austen, è anche un’arma per uscire da quella “trappola della femminilità” (per dirla con Simone de Beauvoir) che lega la donna a un immaginario di obbedienza e accettazione del destino che le viene imposto. Così, l’ironia è per Jane Austen lo strumento principe per forzare la chiusura di certe regole e schemi antichi, per rompere l’autoreferenzialità di alcuni meccanismi, come quando, in risposta alla lettera del Bibliotecario del Principe Reggente che cerca di darle indicazioni per le opere future, risponde: “Credo di potermi vantare d’essere, con tutta la superbia possibile, la femmina più ignorante e peggio informata che mai abbia avuto il coraggio di diventare una scrittrice”. Tramite l’ironia, Jane Austen afferma la propria totale autonomia di pensiero e consolida – per se stessa e per le sue protagoniste – quello spazio di libertà e indipendenza ottenuto nei suoi scritti senza mai rompere l’ordine costituito, ma agendo, per così dire, al suo interno.
Se si può avere l’impressione che la rilettura di Jane Austen entri a far parte di un panorama letterario in cui l’attenzione al femminile, in particolare con la riscoperta di autrici del passato, sia particolarmente in voga – con case editrici dedicate, studi e approfondimenti molteplici – è tuttavia facile constatare quanto bisogno ci sia ancora, e oggi in particolare, di una cultura che possa aprire un varco di libertà, che sappia porre interrogativi all’interno di schemi già consolidati e dati per inamovibili. In quest’ottica, un’attenta lettura da parte di un pubblico – anche, se non soprattutto, maschile – di opere come quella di Jane Austen, con la loro potente e sfaccettata ironia, con la delicatezza e la maestria che solo i capolavori senza tempo hanno, potrebbe davvero iniziare a segnare una differenza.