James Purdy è uscito dal gruppo

James Purdy, Non chiamarmi col mio nome, tr. Floriana Bossi, Racconti edizioni, pp. 223, €17,00 stampa

La Rivista è sempre stata tendenzialmente anarchica quando si trattava di decidere cosa recensire e cosa no: decidono liberamente i collaboratori. Stavolta, una volta verificato che la stessa raccolta di racconti aveva attirato l’attenzione di due recensori, ci siamo detti “Ebbene, perché non presentare ai nostri lettori due punti di vista diversi sullo stesso libro?” Per cui, in occasione della Pasquetta, eccovi due opinioni su Non chiamarmi col mio nome.

VALENTINA MARCOLI

Un aristocratico delle periferie, così viene definito James Purdy nella bella prefazione di David Means, prefazione necessaria come un fondamentale manuale d’istruzioni. Una scrittura che non assomiglia a nient’altro, una voce che si distingue dal coro, una penna che tramortisce e confonde i suoi lettori ma che di base ha nei suoi racconti una radice nell’istinto e nella forza dei sensi.

Quest’uomo che vestiva in maniera elegante, ma fuori dal suo contesto, non era tuttavia interessato alle cose contemporanee e di conseguenza i suoi racconti vanno letti con attenzione e su più livelli, considerandoli come frammenti, istantanee di una storia più ampia. Se conoscete già i suoi lavori ben venga, ma se siete alla prima lettura non lasciatevi distrarre dal senso di disorientamento che s’impossesserà di voi, è normale. Perché in tutte queste storie le vite dei personaggi sembrano solo a una prima occhiata ordinarie e ricoperte di decoro – ma se scavate un po’ più a fondo, se osservate con attenzione più nel dettaglio, allora coglierete i segreti che i loro cuori celano. Nulla è palesato e tutto è un interpretare. I dialoghi spesso taglienti come lame e crudeli come solo l’animo umano a volte sa essere, i contesti che s’intuiscono a malapena e a volte solo alla fine del racconto, e gli intenti dei personaggi che sono tutti comparse e protagonisti allo stesso tempo.

In “Marito e moglie” la coppia discute per il licenziamento di lui a causa della sua omosessualità venuta allo scoperto, o forse mai nascosta; in “Taglio moderno” la madre accoglie mal volentieri il figlio per colpa della sua barba incolta; in “Ogni cosa sotto il sole” i due ragazzi discutono anche in questo caso di un’omosessualità latente ma dichiaratamente velata, almeno tra i due. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta poi, “Non chiamarmi col mio nome”, siamo a una festa e una moglie non sopporta di essere chiamata col nome del marito e pretende che lo cambi.

Scene di scontri dettate dai sogni che portano i personaggi all’esasperazione e poi in una sorta di tregua e poi ancora allo scontro in una funambolica serie di eventi. Tutti accomunati dalla figura di uno scrittore che finirà per essere molto conosciuto per essere poco conosciuto, e che a suo modo sta parlando al mondo e ne sta descrivendo le stranezze.

 

ELIO GRASSO

Diavolo d’un Purdy. Capace come nessuno di allungare maldicenze sui conterranei d’oltreatlantico. Gran cultore delle patologie quotidiane di personaggi messi in scena in racconti e romanzi pressoché lasciati in disparte dall’editoria nostrana. La parte di rispettabilità erosa nel buio delle case, dentro a panorami americani, è costantemente sotto la sua lente micrometrica, fintanto che le crepe nei rapporti familiari si allungano e si allargano come faglie californiane. Purdy sa come torcere le posizioni sentimentali di donne e uomini: da frasi innocenti, in apparenza garbate e abituali, si scatenano psicodrammi dal sapore alcolico, fratture irreparabili svolte nei fitti dialoghi che terminano in una sorta di “coma” irreversibile, dove chiunque si scioglie in un deliquio per così dire storicizzato, “targato”. Uomini e donne, dopo essersene dette di tutti i colori, abbandonano coltelli e pistole ritornando estenuati alla vita ordinaria.

In queste storie si vive sotto il tiro di pulsioni che stanno ai limiti della moralità (tutta americana, per inciso) e della pedanteria provinciale nei quartieri metropolitani. Non a caso il drammaturgo James Albee (quello di Chi ha paura di Virginia Woolf, per intenderci) scrisse l’adattamento teatrale di Malcolm, primo romanzo pubblicato da Purdy nel 1959. Purdy, da buon rinnegato, ha molta voglia di ricorrere a oscenità fatte trasparire dall’ombra dei dialoghi, e a pistole occultate nei rigonfiamenti degli abiti. Una vera canaglia affabulante. Scrittore di piccoli e ignobili disastri domestici.

Per questo negli anni ’50 ebbe esordi difficoltosi, fino a che Dorothy Parker, entusiasta, lo recensì su “Esquire” decretandone un certo successo anche internazionale. Passando da Chicago a New York, la vita dello scrittore ebbe una svolta decisiva. In questi racconti, di seducente atmosfera riccamente ambigua e spesso onirica, di forte devozione ai linguaggi corporali e gestuali, si avverte l’influenza di Paul Bowles, suo grande amico. Purdy impregna la sua prosa di acidità giornalistica, come un reporter di cronaca nera in grado di spalancare l’uscio di case inzuppate di vertigini “felliniane”. Ogni pagina scoperchia nidi di furie sospette, segni di malattie oscure, risentimenti a stento repressi. Basta un nonnulla perché i protagonisti scatenino massacri più o meno violenti.

Il licenziamento intacca la virilità di un marito scatenando ire coniugali, fino alla scoperta finale di un’omosessualità maschile nemmeno tanto latente. Una donna confessa di odiare il cognome del marito, pretendendone la modifica, per finire a botte durante una festa comune. L’odio si scatena quando una madre si vede arrivare a casa il figlio a cui è cresciuta una folta e per lei inguardabile barba. Un nonno intrattiene rapporti indecenti con la moglie del proprio figlio, mentre il nipote gira loro intorno. Due amici, conviventi, intrattengono sciocche discussioni al cui fondo è facile intravvedere un’omosessualità non esibita, nascosta, di certo detestata. Un’insegnante completamente nuda, vittima della vendetta di un alunno, dopo aver a lungo girovagato per le strade notturne, chiede aiuto a un secondo studente debole di stomaco. Una madre ha in odio l’amico greco del figlio, così come l’intera famiglia e probabilmente la Grecia stessa. E così via fino all’ultimo fenomenale racconto lungo: “63: palazzo del sogno”. Novella pubblicata nel 1956 grazie all’entusiasmo e ai buoni uffici di Edith Sitwell (poetessa e saggista in voga a quei tempi) che convinse Purdy a lasciare l’insegnamento per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno.

Ogni storia parte da un evento banale trasformato immediatamente in drammatico, trascinandosi poi verso un finale dove ogni cosa resta del tutto immutata. Ogni protagonista (mogli grasse e mariti idioti addetti all’alcol, ragazzini d’indole inquieta, zitelle sfatte, ragazzi bizzarri), preda di tic ricorrenti, di sentimenti repressi ma improvvisamente deflagranti, segue la visione di uno scrittore che nonostante l’aspetto formale ed elegante poteva narrare la brutalità dentro altrettanto formali situazioni familiari. Aprendo voragini inaudite.

È vero che per molti aspetti Purdy possa somigliare a William Burroughs (così come ricorda David Means nella bella prefazione al volume), noto per la sua capacità di sparare una fucilata indossando il doppiopetto. La meccanica dei racconti (e dei romanzi) sta a metà strada tra la frivola nonchalance e il gossip di Warhol e le maschere distorte di Lynch. È vero che i dialoghi (ben poco signorili) sono appaltati quasi sempre dal pettegolezzo, dalle attrazioni carnali tenute nascoste fino all’ultimo, dalle disfunzioni psichiche coltivate con cura. Purdy si diverte a far originare disprezzi e ostilità partendo da fatti e situazioni del tutto irrilevanti, all’apparenza futili. Purdy in fondo vuole star fuori dalle conformità letterarie di quegli anni, la sua bizzarria congenita finisce tutta nelle pieghe di coloro che descrive.

A differenza di Carver (per favore, non pensateci) qui non esistono pietà e slittamenti verso mostritudini sentimentali di bassa cucina, ricoveri casalinghi e brusii etilici, incipriamenti e trucchi disciolti in lacrime. I sonori vaffanculo di alcuni personaggi sono gli stessi che nella sua formalità Purdy distribuisce elegantemente a tutti noi.

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