James Gordon Farrell e la fine delle Colonie

James Gordon Farrell, La presa di Singapore, tr. Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Neri Pozza, pp. 816, euro 23,00 stampa, euro 9,99 epub

Walter Blackett è uno scaltro uomo d’affari britannico che vive ormai da decenni a Singapore. Ha una solida azienda che produce gomma, un sistema all’apparenza legale per assicurarsi che il prezzo rimanga alto, un socio di vecchia data con cui va perfettamente d’accordo e una bella famiglia. Insomma, tutto va benissimo. O almeno così sembrava a Walter. Ma se si ha una figlia, questa va maritata, e se si possiede un’azienda e un figlio maschio inetto, la cosa diviene sempre più importante. Trovare un marito per Joan dovrebbe essere piuttosto semplice visto che è bella e ricca, ma gli scapoli abbienti e capaci, ovviamente di origine inglese e di buona famiglia non sono poi tanti a Singapore, e Joan sembra avere gusti discutibili e un carattere tutto suo. È questa la prima crepa fra le molte che corrono sempre più veloci e larghe nella vita solida che Walter pensava di aver costruito, a cui vanno ad aggiungersi la caducità della vita umana, gli irritanti ideali progressisti di uguaglianza e fratellanza che sembrano prendere piede, la guerra mondiale e l’esasperante tendenza dei politici a non voler proprio vedere l’estrema importanza della Blackett and Webb e della parata per il suo anniversario.

Inizia così un ritratto impietoso della potenza coloniale britannica al suo tramonto e delle sue profonde ipocrisie. Walter, abbiente e arrogante, insensibile a ciò che lo circonda e incapace di vedere i cambiamenti drammatici che stanno per investirlo in pieno, diventa il simbolo dell’imperialismo che si sgretola e si aggrappa al suo potere senza curarsi delle conseguenze. James Gordon Farrel sceglie di iniziare il romanzo usando Walter per veicolare il suo racconto, e riesce a renderlo sempre più grottesco e odioso. Ma non è l’unico personaggio di cui Farrell si serve: un idealista giovane e inetto, un trombettiere giapponese, un cinico ufficiale francese, un maggiore statunitense e gli esausti generali di un esercito allo sbando diventano ognuno una lente diversa per osservare una realtà complessa sull’orlo di un cambiamento epocale. 

In alcuni momenti, Farrell si dilunga forse un po’ troppo su alcuni aspetti, ma questo è anche il risultato di un’accurata ricerca storica (come spiega l’autore stesso, i romanzi in genere non hanno una bibliografia, ma questo dovrebbe averla), e questi momenti sono compensati dall’atmosfera molto particolare e da un senso dell’ironia sottile in stile Wodehouse. Il romanzo è l’ultimo capitolo della Trilogia dell’Impero che abbraccia le colonie britanniche di Irlanda, India e Singapore: la sentenza di Farrell sull’esperienza imperialista è dura e senza appello: Singapore nei suoi ultimi giorni coloniali è un misto di eleganti feste in giardino per ricchi occidentali e vicoli luridi popolati di prostitute troppo giovani o troppo vecchie, un misto di nazionalità e razze che l’Impero britannico finge di voler unire mentre lascia che cinici affaristi imperversino come moderni pirati sulle impotenti popolazioni locali. Le uniche voci di dissenso sono quelle di un giovane intellettuale che non riesce a farsi ascoltare da nessuno e i guaiti di un cane abbandonato e spelacchiato battezzato dai suoi padroni “La condizione umana”.