Jamaica Kincaid / Alla ricerca dei semi himalayani

Jamaica Kincaid, Passeggiata sull’Himalaya, tr. di Franca Cavagnoli, Adelphi, pp. 211, euro 14,00 stampa, euro 8,99 epub

Jamaica Kincaid ha un giardino nel Vermont ed è appassionata di piante di ogni genere. Il suo giardino, come del resto tutti i giardini, non ha nulla di spontaneo o casuale, ma è un luogo di meraviglia creato e curato con dedizione e conoscenza. Così quando le viene chiesto di scrivere un piccolo libro su un viaggio, sceglie di andare a cercare semi di piante rare e sconosciute sulle colline pedemontane dell’Himalaya, in Nepal. Ci va con tre vivaisti, una coppia gallese e un amico americano.

Tutto è organizzato molto minuziosamente, con una guida locale e dei portatori. Le comodità sono garantite da questa organizzazione: il campo messo in piedi ogni sera, le tende e la tendina-toilette, i vestiti asciutti con cui cambiarsi una volta arrivati, la tinozza per il bagno, il cibo preparato e servito a una tavola imbandita con forchette e coltelli. Ma il viaggio è anche tutto quello che non abbiamo preparato e previsto.

Le colline pedemontane da cui ogni tanto si vedono la cima del Makalu e del Kangchenjunga, più raramente dell’Everest, non sono delle colline come le nostre: l’altitudine varia dai 1500 ai 3000 metri, i sentieri sono scoscesi, spesso lungo il bordo di burroni profondi; a volte con sollievo si snodano nel bosco, altre volte fra massi giganteschi; ma sempre di salita in salita, e ogni volta che una salita sembra finita ce n’è subito un’altra da affrontare. I fiumi e i ruscelli, che si attraversano su ponti traballanti, sono tumultuosi e azzurri; le cascate sono così fitte e potenti da sembrare disegnate sulla roccia. Il tempo varia con grande rapidità, sole caldissimo e poi freddo, pioggia e persino neve. I villaggi sono talora semplici gruppi di case di pastori di yak, talora monasteri con i loro annessi; un paio di questi villaggi sono stati occupati dai guerriglieri maoisti che di certo non vedono bene un gruppo di americani. Le piante sono sempre sorprendenti, sia che le si riconoscano sia che le si scoprano, sia che siano delle piante mai viste sia che siano una delle mille varianti di piante note e catalogate, che la natura generosamente e silenziosamente ci regala. Il cielo è concavo, è una volta di cui qui si coglie appieno la rotondità che normalmente ci sfugge; di notte il cielo è di velluto, è pieno di stelle e di un blu profondo e bellissimo. E infine c’è il silenzio. Non un silenzio di mancanza di suoni, ma un silenzio in cui i suoni sono solo quelli necessari, i richiami e i movimenti degli animali, il vento, il fiume e i ruscelli.

Il viaggio di Jamaica Kincaid è faticoso, per quanto si fosse preparata, e a tratti spaventoso. Le piante che trova, nonostante la bellezza sono spesso inadatte a essere trapiantate nel Vermont. Non c’è mai la dimensione della sfida che siamo abituati a trovare nei racconti di alpinisti e scalatori che hanno percorso in lungo e in largo queste zone. Non c’è neppure la ricerca di una spiritualità che abbiamo perso e speriamo di ritrovare al cospetto di un panorama così immenso e così potente che finalmente ci sentiamo piccoli e inutili come in fondo sappiamo di essere. Nel libro di Kincaid il viaggio è una ricerca e un continuo stupore, è il risveglio ogni mattina sapendo che non si sa nulla della giornata che abbiamo di fronte. Tutto quello che vede sa che lo vede per la prima e ultima volta, non si può mai sapere se in un posto si tornerà. E l’unico modo per raccontarlo sono ancora una volta le parole.

Nell’introduzione a questo piccolo libro che racconta di una grande regione, Kincaid ci dice che la parola scritta è il suo mezzo naturale, il modo in cui ha imparato a conoscere il mondo. Anche il rapporto con sua madre è passato attraverso la parola scritta e i libri. E sua madre le ha trasmesso l’amore per il giardino. Che è sempre il nostro tentativo di riprodurre la felicità del paradiso perduto. Il giardino è la nostra memoria impossibile dell’Eden, e ogni pianta, oltre alla bellezza, al profumo, alla funzione che svolge nel suo ecosistema, è anche un pezzetto di conoscenza.

E poi un viaggio è sempre un viaggio dentro sé stessi. Non solo perché si esce dalla comfort zone e si affrontano cose diverse dal quotidiano, scoprendo o superando i nostri limiti. Non solo perché è un altro tassello di conoscenza, come se dentro di noi vivessero specie diverse di piante che non abbiamo ancora né visto né meno che mai catalogato. Ma anche perché cogliamo appieno l’evanescenza e l’eternità del presente. Fuori dal quotidiano, fuori dal conosciuto, ci diventa evidente che la vita è solo qui e ora, che non ci sono programmazioni, piani e progetti di cui possiamo avere la stessa certezza che abbiamo del momento che stiamo vivendo. Tutto questo Kincaid ce lo racconta con quel suo modo leggero e profondo, con quella sua voce ricca e imperfetta, con quella sua scrittura di una “spontaneità sontuosa”, come l’ha definita Susan Sontag. E una definizione migliore non si può trovare.