Cosa c’è tra la vita e la morte? Secondo Jacques Derrida, uno dei più grandi filosofi del Novecento, tra la vita e la morte c’è la scrittura, una prassi che ci consente di vivere, o forse semplicemente di sopravvivere (living on – survivre). Partendo dal trattino o dalla congiunzione e che separa la vita dalla morte, Derrida sviluppa in questo straordinario Seminario l’idea di una nuova pratica filosofica che si inserisce in questa sospensione tra la vita e la morte, ricordandoci sempre che all’origine della nostra eredità biologica c’è sempre un atto di trascrizione di un codice e dunque, in ultima analisi, una grammatica.
La vita la morte. Seminario 1975-1976 – ora pubblicato da Jaka Book (352 pag., 35 euro), a cura Francesco Vitale – è stato tenuto da Derrida nel corso dell’anno accademico 1975-76 presso l’Ecole Normale Superieure, e la serie “Les seminaires de Jacques Derrida” nella collana “Biblioteque Derrida” è stata curata in particolare da Pascale-Anne Brault e Peggy Kamuf. Gran parte di questi Seminari è del tutto inedita, e dunque gli scritti ancora inediti di Derrida rappresentano un vero e proprio tesoro che consentirà nei prossimi anni di definire meglio la portata della sua proposta filosofica: si tratta di 14.000 pagine di inediti di corsi e seminari tenuti a Parigi, soprattutto alla Sorbonne e poi all’Ecole Normale Superieure e presso l’EHESS, cioè l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Il testo è stato stabilito utilizzando il materiale del fondo Jacques Derrida presso il Critical Theory Archive della biblioteca dell’Università della California a Irvine, insieme ai lasciti di altri grandissimi filosofi e critici letterari come Wolfgang Iser, Paul de Man, Stanley Fish, Richard Rorty, J. Hillis Miller, e Murray Krieger.
Questo Seminario consente di ripercorrere il pensiero di Derrida in alcune fasi fondamentali del suo percorso filosofico e di riconsiderare la sua Decostruzione della tradizione filosofica occidentale alla luce della discussione serrata che Derrida porta avanti con i testi di Nietzsche, di Heidegger e di Freud, partendo dalla filosofia della vita di François Jacob, autore de La logica del vivente (1970). Il tentativo di Derrida in questo Seminario è dunque quello di individuare una possibile decostruzione dell’opposizione tra la vita e la morte quale matrice che orienta e struttura la tradizione del pensiero occidentale in chiave metafisica. Sarà interessante vedere, leggendo i prossimi volumi ancora inediti, se Derrida abbia affrontato nei suoi corsi di quegli anni la filosofia della vita di alcuni filosofi tedeschi che hanno influenzato in modo decisivo il primo Heidegger, come Ludwig Klages.
In Occidente, e in particolare in Europa, si definiscono propriamente filosofie vitalistiche o filosofie della vita (Lebenphilosophie), quelle filosofie di ascendenza romantica, sviluppatesi soprattutto in Germania alla fine del XIX secolo in opposizione al positivismo e alle scienze, e in ultima analisi all’Illuminismo, ai quali si rimproverava di aver ridotto la filosofia a una riflessione astratta sulla realtà della vita, che doveva invece essere definita tornando alla concretezza.
Fin dall’inizio dell’800 Arthur Schopenhauer incentrava la sua filosofia sulla “volontà di vivere”, concetto alla base di fenomeni biologici e spirituali che avevano come loro essenza una forza irrazionale e cieca che rendeva vano ogni tentativo degli uomini di dare senso e direzione alla loro stessa esistenza. Questa “volontà di vivere” di Schopenhauer si trasformò nella filosofia di Friedrich Nietzsche in “volontà di potenza”.
Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del Novecento, le teorie di Sigmund Freud contribuirono in modo determinante a costruire una nuova visione dell’uomo e della sua psiche, dominata dalle pulsioni, anzitutto la pulsione sessuale o libido, cui Freud aggiunse a partire dal 1920, nel suo saggio Al di là del principio del piacere, opera che già nel titolo evoca il famoso libro di Nietzsche Al di là del bene e del male (1886), la cosiddetta pulsione di morte o destrudo. Derrida fa dialogare a distanza i testi di Nietzsche e di Freud, e lo fa utilizzando come intermediario tra i due Martin Heidegger, partendo proprio da una sezione apparentemente marginale ma in realtà molto importante del Nietzsche (1961) di Heidegger, la sezione che Heidegger dedica al presunto biologismo di Nietzsche (“Il preteso biologismo di Nietzsche”).
Per gran parte della sua vita, Sigmund Freud fu convinto che l’unica pulsione inconscia che ci guida nel corso della nostra esistenza fosse quella sessuale, o principio del piacere. Dentro di noi è presente un’energia, una carica, un’energia, una pulsione che lui chiama libido o pulsione sessuale o Eros. La libido ci porta a cercare un modo per soddisfare questa spinta, per consumare quest’energia. Un modo che può essere sessuale nel senso più tradizionale e banale del termine, ma che si può anche sublimare nell’arte, nella musica, nel lavoro e in molti altri campi. L’accumulo eccessivo di libido che non viene sfogata genera un potenziale che può sfociare in atteggiamenti autodistruttivi, quali la nevrosi, l’isteria, l’ansia, la depressione, la fobia e la psicosi. Improvvisamente, nel 1920, dopo la Prima Guerra Mondiale, Freud si convinse che all’interno della psiche dell’uomo convive un’altra pulsione, che è la pulsione di morte, o Thanatos, che aveva dato origine alla guerra, e che si contrapponeva a Eros, una pulsione che Freud all’inizio voleva chiamare destrudo, ma poi – e qualcuno aggiunge per fortuna – ci ripensò. Altrimenti saremmo tutti noi qui, ancora oggi, a pensare che le nostre esistenze e il nostro comportamento siano condizionati dalla destrudo.
Derrida riprende e arricchisce questo discorso sulle basi filosofiche metafisiche della biologia e del biologismo partendo proprio da Nietzsche e da Freud. Ancora una volta l’approccio derridiano è un approccio grammatologico e pan-testuale, cioè un approccio che parte dal linguaggio, e in particolare dalla scrittura. Se nell’etimologia “metaforica” della parola “essere”, c’è qualcosa che vuol dire vivere – dice Derrida – se essere = vivere, allora il verbo “essere-morto” è impensabile. “Come può quindi – dice Nietzsche ne La Volontà di Potenza – qualcosa di morto “essere”?”. Ancora risuonano nella coscienza del pensiero metafisico occidentale le parole impossibili del Valdemar protagonista di uno dei racconti di Edgar Allan Poe, “La verità sul caso di Mr Valdemar” (1845), sospeso grazie alla tecnica di Mesmer in uno stato intermedio tra la vita e la morte. “Io sono morto”, dice Valdemar. Siamo passati nell’arco di quasi tre millenni dall’ “Io sono colui che sono”, cioè l’assoluta presenza del Dio dell’Antico Testamento, all’”Io sono morto”, cioè alla assoluta assenza, anzi alla presenza di un nulla, di un vuoto, dell’emittente di un messaggio che è per definizione assente, in quanto defunto. Essere morto è qualcosa che non possiamo pensare perché non possiamo dirlo. Però io sono morto, e Poe lo ha dimostrato, lo si può scrivere. La scrittura va oltre la morte, ci sopravvive, continua a parlarci anche secoli dopo la morte dell’autore, dell’uomo in carne ed ossa che corrispondeva al nome di Edgar Allan Poe. Di quell’uomo rimane soltanto, appunto, lo scritto, uno scritto che gli viene attribuito, sotto il quale viene apposta la sua firma, firma che secondo la grammatologia di Derrida è sempre falsa per definizione, in quanto già da sempre distaccatasi dal proprio autore, firma che ha assunto una vita – o una morte – propria. La Decostruzione è proprio questo margine, questo scarto che si inserisce tra ciò che possiamo pensare, ciò che possiamo dire e ciò che possiamo scrivere. Nella Decostruzione si va oltre il biologismo e l’autobiografismo, approdando al tanatologismo e all’autotanatografismo. In questo Seminario, dunque, l’istanza biologica, biografica, diventa tanatologica e tanatografica. La Decostruzione è una tanatoprassi, perché ci pone di fronte all’impossibilità di parlare, e al contempo ci pone di fronte all’eterna possibilità di scrivere e di essere letti dopo la morte. Non è forse l’essere morto l’oggetto ideale dello studio scientifico? E’ possibile elaborare una filosofia della morte e una scienza della morte da contrapporre alla filosofia della vita e alle scienze della vita?
Un organismo, secondo il pensiero di Jacob interpretato da Derrida, è una transizione tra ciò che fu e ciò che sarà. Ogni uovo contiene, dunque, nei cromosomi trasmessigli dai genitori, tutto il proprio avvenire, le tappe del suo sviluppo, la forma e le proprietà dell’essere cui darà origine. In tal modo, l’organismo diventa la realizzazione di un programma prescritto dal patrimonio ereditario. Uno dei punti essenziali della elaborazione teorica di Jacob, è proprio questa scrittura del codice della vita: “L’essere vivente rappresenta precisamente l’esecuzione di un progetto, ma che nessuna intelligenza ha concepito. Tende verso un fine, ma che nessuna volontà ha scelto.” Il programma genetico non prende lezioni dall’esperienza: è un archi-scrittura originaria. Siamo molto vicini a quella condizione ideale della scrittura derridiana, una scrittura che si svincola dal senso e dall’intenzionalità dell’autore per abbandonarsi – pur procedendo con il massimo rigore logico – al libero gioco dei significanti.
Dunque, secondo Derrida, la biologia contemporanea è ancora profondamente aristotelica ed hegeliana, figlia di un meccanicismo senza progetto. Ecco perché a condizione necessaria per la possibilità stessa dell’evoluzione della vita è la morte. Non la morte venuta dall’esterno, come conseguenza di qualche causa accidentale, ma la morte imposta dall’interno, come una necessità prescritta dallo stesso programma genetico, fin dalla formazione dell’uovo fecondato. La cellula è votata alla morte. La nostra essenza biologica è un disegno fissato in anticipo: è già tutto scritto, tutto già sovradeterminato, un’idea che è alla base della Decostruzione e che ricompare molto spesso anche in Sigmund Freud, nella cui psicanalisi non esistono atti insensati, ma tutto ha un suo significato; sta a noi scoprirlo.
L’eredità biologica è una trasmissione di informazione. Dire che l’eredità biologica è una comunicazione di informazione significa, in un certo senso, ritornare all’aristotelismo, se si tratta di ammettere che nel vivente c’è un logos, iscritto, conservato e trasmesso. Il logocentrismo, esiliato dal discorso filosofico, continua a nascondersi nella scienza contemporanea. La conoscenza della vita assomiglia alla grammatica, alla semantica e alla sintassi. Per comprendere la vita, bisogna procedere, prima di leggerla, alla decrittazione del messaggio della vita.
Rimanendo sempre molto aderente ai testi di volta in volta presi in esame, Derrida decostruisce l’istanza biologica, biografica, in questo Seminario, portando ancora una volta la metafisica occidentale alle sue estreme conseguenze, trasformandola in una prassi tanatologica e tanatografica. Non è forse l’essere morto l’oggetto ideale dello studio scientifico? È possibile elaborare una filosofia della morte e una scienza della morte da contrapporre alla filosofia della vita e alle scienze della vita?
Questa riflessione di Derrida, che si occupa di testi apparentemente marginali di Nietzsche, Freud e Heidegger, ci porta al centro di alcune delle fondamentali questioni filosofiche poste dalla scienza che si interroga sulla nostra condizione attuale, al centro delle questioni filosofiche sul futuro dell’umanità poste dall’attuale pandemia da Coronavirus. Che cos’è infatti un virus, è un essere vivente o cos’altro? Sicuramente un virus è un codice che viene trascritto, anzi che si trascrive da sé. Eppure, tecnicamente, secondo molti scienziati, i virus non sono vivi, e dunque non c’è niente di meglio di un virus per comprendere come la non-vita stia creando seri problemi alla vita, come il vivente non sia nient’altro che una specie molto rara del non-vivente, come diceva Nietzsche ne La gaia scienza, come tra la vita e la morte ci sia, ancora una volta, la trascrizione di un messaggio genetico che si propaga. In fondo un virus non fa altro che trascrivere e replicare il suo messaggio da un organismo all’altro, non fa altro che trascriversi. La sua vita – se di vita si può parlare – è la scrittura. Ecco allora che la vita stessa e il suo telos finale, la sua distruzione, cioè la morte, vengono a configurarsi come una scrittura.