Il volume a cura di Jacopo Favi Invecchiare. Prospettive antropologiche offre una rassegna di studi che analizzano il processo di invecchiamento. I saggi descrivono la situazione degli anziani negli Usa, in alcune zone dell’India e del Bangladesh, a Ibadan in Nigeria, e parlano del lavoro di cura svolto dai migranti del Ghana negli Stati Uniti.
L’antropologia offre, allo studio biologico e medico dell’invecchiamento, uno sguardo ampio sui legami che lo status di anziano ha con le variabili di classe, di genere e transnazionali. Fino agli anni ’80 gli studi sull’invecchiamento erano riservati alla gerontologia che affrontava il percorso di vecchiaia solo dal punto di vista medico e biologico. Essere anziani – ci spiega il volume – è invece campo etnologico, dunque questione culturale e, come tutte le questioni culturali, l’idea di vecchiaia muta a seconda dei contesti e della concreta materialità della vita dell’anziano: del suo livello di reddito, dell’essere uomo o donna, residente o migrante. Nello stesso paese la vecchiaia viene letta e interpretata a seconda del periodo storico e spesso, come oggi avviene, in modo contraddittorio a seconda degli interessi in campo. Prendiamo l’Italia dove l’anziano è di volta in volta “soggetto fragile” da dover tutelare, ma è contemporaneamente un lavoratore che può andare sulle impalcature fin oltre la sessantina, una nonna cui vengono affidati i nipoti e che integra i bassi salari dei nipoti, una persona pronta per la casa di riposo o la presidenza del consiglio.
Soggetto attivo o passivo, beneficiario o donatore di reddito, la definizione univoca che si attribuisce alla vecchiaia può essere assimilata a quella che si dà di donna, nero, ecc. tanto che oggi si parla di ageismo per descrivere lo stereotipo dell’anziano, simile per certi versi al sessismo o al razzismo. Dunque l’antropologia, focalizzando il tema dell’invecchiamento in luoghi limitati oppure su traiettorie esistenziali di migranti a contatto con diverse culture, offre una lettura legata a casi e modi di pensare specifici. L’ estremo relativismo, anche rispetto alla cronologia dell’invecchiamento, la offre lo scrittore e testimone del lager Jean Amery, che afferma che quando a 43 anni John Kennedy fu eletto presidente degli Stati Uniti era considerato giovane, ma non altrettanto lo era un uomo della stessa età che fosse ancora assistente di un professore universitario.
Secondo gli studi degli antropologi dunque:
ciò che conta non è tanto la possibilità di definire una volta per tutte l’anzianità, ma comprendere come le categorie analizzate vengano percepite e utilizzate dai diversi soggetti, tenendo sempre presenti altre variabili, come il contesto temporale o spaziale, la classe, il genere, il capitale sociale e quello simbolico (pag.15).
Il libro descrive i mutamenti nei paradigmi antropologici sulla vecchiaia. Sino alla metà degli anni ’60 gli studi interpretavano l’invecchiamento come un processo segnato dal progressivo disimpegno sociale e dalla separazione contemporanea tra individuo e società. Una sorta di segregazione e di ritiro sociale dell’anziano socialmente accettato. Dagli anni ’90 gli studiosi e i medici parlano al contrario di “invecchiamento di successo”. Si tratta dell’insieme dei comportamenti desiderabili che deve adottare l’anziano per ritardare il più possibile la dipendenza insita nella vecchiaia. Essere “anziani di successo” vuol dire dedicarsi allo sport, alla cultura, al volontariato e avere una vita sociale appagante. Il nuovo modo di intendere l’invecchiamento coincide con lo smantellamento progressivo del welfare state, avvenuto negli anni ’80, e con la volontà della stato di investire meno denaro per l’assistenza pubblica. Il peso degli anni, con i problemi che esso comporta, viene in questo modo scaricato sugli anziani, indotti a perseguire con disciplina determinati obiettivi che li rendano autonomi il più a lungo possibile, oppure a farsi carico della colpa di essere diventati troppo dipendenti a causa di uno sbagliato stile di vita e a sopportare così i luoghi tristi e la misera assistenza pubblica loro riservata. Al contrario, come ci spiega Sarah Lamb, in India e nella regione del Bengala la vulnerabilità e la morte sono considerate condizioni accettabili, parte del paradigma dell’essere vecchi. La dipendenza è considerata normale per l’anziano e la soluzione è nella cura che i figli devono riservare ai vecchi.
Neoliberismo e pensiero orientale guardano in maniera diversa all’indipendenza dell’anziano, per i primi condizione desiderabile, per altri indice di disinteresse da parte dei congiunti. Ma sarebbe sbagliato considerare mondo neoliberista e mondo orientale e africano in modo univoco. Anche in India, in Africa e in Asia la globalizzazione ha portato a grandi cambiamenti e mutazioni nelle relazioni. I migranti, impossibilitati alla coabitazione tradizionale, offrono soluzioni di cura a distanza con video-chiamate e messaggi, gli anziani rimasti contano sul successo del congiunto all’estero, ne amministrano il denaro nella comunità e considerano il fallimento della migrazione e il ritorno a casa qualcosa di cui vergognarsi. “Torna solo se hai successo” sembra la parola d’ordine di chi parte per sopravvivere meglio.
Il successo dunque non lo vogliono solo i ricchi maschi bianchi e abbienti, ma è un pre-requisito per tornare onorati in patria anche in altre culture. Culture che si modificano a contatto con altre, spesso in modo paradossale rispetto alle norme tradizionali. È il caso dei maschi del Bangladesh giunti a Londra per sposare cugine o parenti lontane che già risiedono nel paese e che ne conoscono la lingua. Per gli uomini è un modo di inserirsi nella nuova società e rinsaldare le relazioni con membri della loro famiglia allargata. Ma il fatto di non parlare inglese colloca le donne a un livello molto più importante e decisivo di quello che avrebbero avuto nei loro luoghi d’origine. Permanenze e cambiamenti segnano le relazioni, e nelle relazioni il modo di intendere la vecchiaia e la morte. Il caso degli assistenti agli anziani ghanesi negli Usa ci mette davanti alle nostre personali e individuali responsabilità nei confronti della cultura liberista. Fatta passare l’idea che a casa l’anziano sta meglio che in strutture esterne, data la fatiscenza in cui esse sono state ridotte, la soluzione del problema dell’assistenza la danno i migranti che dei vecchi si prendono cura.
È evidente che ci possiamo permettere di curare gli anziani, perché ci sono altre persone che per far questo lavoro richiedono poco denaro, sopperiscono alla mancanze dello Stato e non possono neppure accumulare le somme che consentono loro di tornare come vecchi benestanti nei loro paesi. Globalizzazione è dunque stare bene a spese di altri che stanno male: concetto certo semplice ma esplicativo di quanto accade e delle complicità che ciascuno di noi ha con il sistema. Che il ruolo di badante sia esercitato per la maggior parte da donne la dice lunga sulle condizioni economiche e simboliche del lavoro femminile. L’assistenza ai vecchi mal pagata significa salario risparmiato, disprezzo, umiliazione e oscurità del lavoro di cura: tutte le donne sanno quanto il tempo della cura famigliare e sociale sia un importante investimento nella vita di tutte noi. Se vogliamo cambiare le cose, il misero livello simbolico che oggi riveste il lavoro di cura è un terreno da aggredire subito.