Figli, figlie, ultimo romanzo di Ivana Bodrožić, indaga gli incerti territori dell’identità, costantemente minacciati dalle imposizioni della società, della famiglia, deviati dalle aspettative che gli altri riversano su noi stessi. Il punto di vista è quello di una ragazza, Lucija, costretta in uno stato vegetativo permanente a seguito di un grave trauma; consegnata, ancora viva, alla morte. La malattia diviene metafora delle chiusure, fisiche e mentali, che ogni giorno siamo costretti a subire. Un’idea già espressa in altre incarnazioni letterarie; pensiamo a Bianco su nero di Rubén Gallego dove il protagonista, affetto da paralisi cerebrale, è l’autore stesso in lotta con una società basata sul mito dell’uomo forte proiettato verso un luminoso futuro, o ancora al Fabbricante di eco di Richard Powers, periglioso percorso di recupero della memoria e dell’identità da parte del giovane Mark, vittima di una strana dissociazione neurologica.
Merito di Bodrožić aver costruito una storia complessa, nella quale diverse declinazioni dell’alterità descrivono la crudeltà del nostro mondo. Il diverso, chi non risulta conforme alle regole, deve essere corretto o soppresso. Così Dora, sentendo la propria essenza maschile all’interno di un corpo di donna, ha il coraggio di farsi chiamare Dorian. La sua storia d’amore con Lucija ha il marchio del dolore e della sofferenza. Il comportamento del fratello Tomislav, dedito a distribuire volantini in difesa della famiglia nel senso tradizionale del termine, la ferisce. Nella stessa maniera l’atteggiamento della madre, apparentemente superficiale e incapace di provare empatia, le crea grande imbarazzo. Una volta costretta in un letto d’ospedale Lucija è forzatamente docile, ammutolita dalla malattia, paradossalmente ricondotta nell’alveo familiare.
La prima parte del romanzo è un lungo monologo, un’invettiva verso una società incapace di comprendere la diversità. La violenza compare fra le pieghe delle pagine, che sia quella domestica, o ancora quella delle guerre balcaniche mai dimenticate. Nella seconda parte Dorian approfondisce i caratteri di un rapporto che naufraga inesorabilmente. Il continuo nascondersi, la prigione perenne dalla quale non è dato uscire. Il proprio nome, che appare in completa disarmonia con quello che si è veramente. Il giudizio degli altri, costante, tagliente, insieme alla sensazione di non appartenere a nulla. Infine il senso di colpa per aver creduto di poter costruire un rapporto che gli altri rendono impossibile, votato alla tragedia. Nella terza parte la madre evoca la propria vita trascorsa. “Ormai è tardi per tutto”, dice, mentre rimpiange la propria gioventù, sciupata da una gravidanza precoce. La violenza si manifesta nella vita contadina, nella suocera che la costringe a sgozzare una gallina, fra le mura domestiche, con inaudita ferocia.
La guerra spinge gli uomini nel sottosuolo, e allora l’unica scelta possibile è il suicidio. Tutto accade troppo in fretta. La ragazza di un tempo si è eclissata, piegata da doveri che non avrebbe voluto assumersi, ormai irrecuperabile, mentre i figli crescono trasformandosi in persone estranee. Bodrožić descrive un paesaggio umano arido le cui coordinate sono quelle dell’abbandono, un percorso alla fine del quale c’è una squallida morte. La libertà è una febbre passeggera, un effimero anelito, un sogno utopico destinato a infrangersi contro la cruda realtà.