Si dice che Ivan Doig non amasse molto la definizione che molti critici gli avevano affibbiato. Essere bollato come uno scrittore western o cantore della frontiera poteva risultare riduttivo per un narratore che intravedeva la filigrana della poesia sotto la prosa riconoscendo nelle infinite potenzialità della lingua la dimora e le origini in cui ogni scrittore si sarebbe dovuto ritrovare.
Eppure sarebbe difficile non scorgere nella sua vasta produzione – sedici corposi romanzi – l’urgenza di raccontare quella porzione di terra statunitense in cui nacque e da cui non si mosse praticamente mai. Originario della working class del Montana – figlio di una cuoca e di un mandriano – Doig si è ritagliato un ruolo importante nella storia della letteratura a stelle e strisce non solo tratteggiando il carattere di quegli americani che nella seconda parte del Novecento con la propria personale epopea ne hanno contraddistinto la Storia, ma anche restituendo ai lettori la bellezza dei paesaggi di confine facendoli assurgere al rango di veri e propri personaggi sullo sfondo della finzione.
Così, la storia di Donal Cameron, l’undicenne protagonista de L’ultima corriera per la saggezza, non è semplicemente la storia di un orfano – una sorta di bildungsroman in salsa on the road verrebbe da dire – che nella calda estate del 1951 viene spedito dalla nonna, gravemente malata, dai ranch del Montana verso una coppia di zii del Wisconsin: il canto del cigno di Doig appare anzitutto come un pretesto per dar voce a una coralità di personaggi altrimenti dimenticati.
Sul Greyhound – la corriera mastodonte con cui Donal macina chilometri verso il Midwest – montano infatti conturbanti cameriere, giovani soldati in partenza verso la guerra di Corea, latin lover latitanti e hobo, un giovane e poco celebre Jack Kerouac, sceriffi gradassi in vena di paternali, tutti pronti a scrivere e improvvisare versi o pensieri sul quaderno delle dediche che il curiosissimo Donal porgerà loro per lasciarvi un ricordo.
Una piccola ma composita folla di comprimari cui va ad aggiungersi quella della profonda provincia del Midwest. E insieme ai nativi americani, le riserve indiane, troviamo i rodei e i cowboy con il loro assurdo immaginario. Nel viaggio di Donal, da Gros Ventre a Manitowoc, passato prossimo e presente degli Stati Uniti paiono dunque compenetrarsi. Scompare la poetica della frontiera con le invisibili linee di demarcazione di una società che negli anni Cinquanta stava cambiando radicalmente mentre emerge la vera dimensione universale di Doig che con una scrittura sobria e affilata riesce a regalare al lettore una storia semplice ma al contempo paradigmatica.
In conclusione, una lettura necessaria per comprendere l’America che guardava alla seconda metà del secolo breve attraverso il disincanto di un bambino di undici anni, ma anche per scoprire lo spessore di uno scrittore che con uno stile unico seppe far tesoro della lezione di John Steinbeck e Mark Twain assommandola a quella del miglior Kerouac.