Italo Calvino a cento anni dalla nascita non ha nessuna voglia di tacere sul nostro tempo, con consueta cautela, a noi ben nota, ancora dice qualcosa sul declino della civiltà, ancora incrocia le nostre strade sfatte, e non soltanto con gli ultimi scritti, come tali sono Palomar (1983) e le Lezioni americane (1988) interrotte dalla morte prima che potesse scrivere la sesta durante il viaggio a Harvard, sede delle conferenze a cui era stato invitato. Lungi dal diventare un notabile delle lettere, disse più volte che non si rimproverava di trattenersi a scrivere su giornali e riviste ma di non rinunciare al lavoro editoriale, oltre a concentrarsi sul lavoro suo.
Le scritture editoriali, note introduttive, risvolti e quarte di copertina, in equilibrio fra severità e indulgenza, da Calvino vengono offerte al lettore con un ritmo disteso durante gli anni (per più di una ragione eroici) in cui la cultura rivelava la sua operosità anche negli scritti minori, in quelli a uso “informativo”. E, fra scoperte e letture trasversalmente privilegiate, in Italia non sono certo poche le intelligenze che si dedicarono a tale attività: oltre a Calvino: Bazlen, Vittorini, Manganelli, Calasso, Giuliani, Gandini, e via così. Privilegi della nostra cultura, senza dubbio, che trascende psicologismi e salti generazionali. In anni in cui le grandezze latitavano, poi, al pubblico Calvino offrì ispirazioni non da poco, animando coloro che cercavano variazioni narrative e inventive (intorno a “esattezza” e “leggerezza”, per esempio) visivamente testimoniate dai sensi.
Osservando l’indice di questo volume – per certi versi un vademecum atto a ostacolare la perdita sociale, politica, culturale a cui si assiste da un po’ di tempo dalle nostre parti – la fiducia si rinfranca, vediamo non venir meno la facoltà d’intendere quanto la fantasia umana continua a proporre, anzi può renderci conformi a ispirazioni e spunti già avanzati da Calvino. La scelta allineata nel Libro dei risvolti ci accompagna per tutto il secondo Novecento, e traccia un’antropologia dello scrittore-tipo capace di assecondare erotismi concettuali e gustativi di varie epoche, con una predilezione non troppo nascosta verso autori e autrici italiani contemporanei. Ogni testo, breve o lungo che sia, non trova riluttanze e le aspirazioni sono ben forti perché contestualizzano nel lettore il “magazzino” del periodo temporale in cui l’oggetto del discorso (l’opera) è immerso. Il contesto dei sensi non viene mai meno in ogni pagina, né la concisione diventa via di fuga dalle strettoie imposte. Calvino diserta gli automatismi linguistici, facoltà a cui Arbasino aveva dedicato molta attenzione, poiché il “difficile”, e il senso in esso insito, sono oltretutto depositari dei veri comandamenti per una narrativa in continua tensione. La ricognizione si rivolge soprattutto ai particolari.
A questo proposito converrà inoltrarsi nel bellissimo volume Guardare, curato da Marco Belpoliti, in cui vengono raccolti numerosi scritti su disegno, cinema, fotografia, arte e paesaggio: la tematica visiva domina da cima a fondo la scrittura, seguendo i passi che Calvino intraprese fin da Sentiero dei nidi di ragno, libro che sancì il suo esordio. La lettura della realtà è ben evidente, non vi si avvertono ideologie di sorta ma il proposito di interrogare la complessità del presente in tutte le sue forme. Ed è qui, nel corpo del mondo rappresentato dallo scrittore, che il lettore sente di venir compreso non come forma astratta o personaggio ma essere pensante affacciato sull’universo benché afferrato dal leopardiano “peso del vivere”. Calvino riesce a togliere la gravitazione dal linguaggio seguendo quel che riuscì al poeta di Recanati nei propri versi facendo assomigliare il linguaggio alla luce lunare (“Leggerezza”, in Six Memos for the Next Millenium). Ecco l’immagine irrompere nella narrazione, prima degli imbarazzi post-moderni.
Così come Calvino introduceva la specie del romanzo-paesaggio (a proposito di L’angelo di Avrigue del ligure, mai dimenticato, Francesco Biamonti) e del soggetto-opera (a proposito di Lo stadio di Wimbledon dell’altrettanto mai abbandonato Daniele Del Giudice), per lui si può immaginare una sorta di lettura-sguardo che di un libro esplora l’anima fra un battito di ciglia e l’altro. Calvino stava procedendo verso quel luogo in cui vi sono cose che non sono né romanzi né racconti.