C’è una sfida per qualsivoglia scrittore di narrativa: quella di raccontare il mondo di retro alle lettere, il mondo sanza libri (consentitemi l’eco dantesca). Chi scrive, a meno che non sia un ciarlatano o uno di quei rarissimi talenti nativi e selvaggi, è prima di tutto lettore. Leggendo ti viene voglia di raccontare pure tu, di fare come quello scrittore che ti piace tanto. Ma questo ti rende difficile entrare nella testa di chi i libri non li legge; e non dico “ne legge pochi”, no, ne fa proprio completamente a meno.
Certo, lo scrittore di narrativa è anche ritrattista, e siccome di nostri connazionali che non aprono un libro neanche pagati ne abbiamo svariati milioni, dice l’Istat, basta avere familiarità con qualcuno di essi e si avrà un modello su cui basarsi. Ma non è come entrarci dentro. Lì ci vuole un salto, un gettarsi oltre l’ostacolo, un atto di fede nella potenza della scrittura – un po’ come i romanzieri storici che devono mostrarci un’epoca nella quale non sono vissuti, e farci entrare nella testa di qualcuno del 322 a.C. o del 1483 d.C.
Italo Bonera ci porta, anzi, dovrei dire, ci trascina, in una di quelle case senza libri, nella testa di un uomo che evidentemente non legge – tranne il quotidiano al bar, a spizzichi. Si chiama Gabriele, è un tecnico di una compagnia elettrica, ha moglie e due figli. Un uomo qualunque, un signor Rossi, potremmo dire, simile a tanti altri che ci passano accanto. Di una normalità agghiacciante, visto dalla prospettiva di noi che leggiamo. Un rappresentativo italiano del 2024, di quelli che avranno votato Berlusconi o PD, non conta, forse a volte il primo a volte i secondi; uno che mette le corna alla moglie senza pensarci due volte ma si considera un buon padre di famiglia.
La storia inizia con una delle situazioni più classiche, l’incontro tra il protagonista e una dark lady, che ricorda un po’ l’attacco di certi straclassici del noir americano, La fiamma del peccato, per dire, o Il postino suona sempre due volte. Verrebbe da dire “niente di nuovo sotto il sole”, non fosse che Bonera riesce a inquadrare con grande, a tratti terrificante nitidezza la vita normale di quest’uomo normale e della sua normalissima consorte, che spartisce il tempo tra famiglia e pallavolo, che ha due figli (femmina e maschio) tutto sommato normali, perché capita anche a un signor nessuno di avere una figlia come Caterina che a scuola brilla. Sembra di spiare la vita dei tuoi vicini di casa con una webcam e microfoni opportunamente piazzati, e questa metafora se permettete non è casuale.
Il fatto è che Gabriele è un control freak; uno di quei soggetti che vogliono sapere tutto di quel che fa la partner, di cosa fanno i figli, eccetera. Gabriele arriva a leggere messaggetti e postaggi sui social della moglie, e a usare addirittura tecnologie informatiche israeliane (segno dei tempi…) per vedere dove va la sua signora ora per ora. Come si direbbe a Roma, e forse anche altrove, questo non sta bene.
Al tempo stesso il protagonista del romanzo ha una tresca con Leonarda, cioè la dark lady: una donna non particolarmente bella, che non si cura, che non è perennemente in tiro come sua moglie. Una donna con strane abitudini, una che va al tiro a segno a scaricare una semiautomatica contro un bersaglio – come fa anche Gabriele, che della pistola ha fatto il suo unico hobby. Tra i due si innesca un’attrazione animalesca, olfattiva, ormonale, incontrollabile, anche se di fatto caratterialmente non si ricombinano affatto, infatti passano ripetutamente dal sesso rovente al mandarsi a quel paese. E soprattutto Leonarda, in quanto dark lady, ha un lato oscuro, ha un qualche segreto che nasconde al suo amante.
Ora ovviamente devo chiudere il discorso sulla trama, perché non posso rivelare dove Bonera, pagina dopo pagina, trascina noi lettori, con la vita banale dei personaggi che prende una piega sempre più inquietante e morbosa; e man mano che procediamo, ci rendiamo conto che anche Gabriele ha un lato oscuro – oscuro anche a lui stesso, dato che non conserva memoria di un lungo tratto della sua infanzia, quello che precede un incidente domestico del quale ancora porta le tracce. Ma di questo il recensore deve tacere (però suggerirei di farsi una domanda, e cioè quale fosse la missione dell’arcangelo Gabriele, a parte fare annunciazioni; c’entra, c’entra…).
Voglio concludere invece riandando a un film che mi è tornato in mente leggendo il romanzo di Bonera, e cioè La conversazione, di Francis Ford Coppola, pellicola del 1974 meno nota di Apocalypse Now o del Padrino, ma nient’affatto inferiore ad esse, con uno straordinario Gene Hackman nelle vesti di un agente che spia la vita privata di un uomo politico, intercettando telefonate e seminando microfoni, in un vortice di paranoia che alla fine risucchia lui stesso (e nel cast ci sono John Cazale, Harrison Ford giovanissimo e Robert Duvall, tanto per dire). Ecco, nel 1974, con lo scandalo Watergate in corso, l’idea era che a spiarti, a osservarti, ad ascoltarti non era il Grande Fratello di Orwell, ma un apparato senza nome, al servizio di non si sa quali poteri forti, e che a sua disposizione c’erano tecnologie (allora) d’avanguardia, ben oltre il teleschermo di Millenovecentoottantaquattro. Ma nel romanzo di Bonera la situazione si è fatta per certi versi ancor più paranoica, ancor più angosciante: gli strumenti del controllo totale, del monitoraggio continuo, sono a disposizione del signor Rossi, dell’uomo qualunque, del nostro vicino di casa. Di nostra moglie o dei nostri figli. C’è un’inquietante democrazia dello spionaggio: tutti controllano tutti, armati di smartphone opportunamente equipaggiati, c’è sempre l’app per qualsivoglia forma di intrusione nell’altrui privacy.
Già questo aspetto del romanzo ne giustifica la lettura; mettiamoci pure il finale che ti fa lo sgambetto, di quelli che veramente non t’aspetti. Col botto, mi vien da dire; e a ragione. E bravo Bonera.