Ci ha fatto un bel regalo Igiaba Scego, scrittrice romana di origine somala, con il suo ultimo libro La linea del colore pubblicato da Bompiani. Un bel regalo per i lettori italiani che sono poco abituati a fare i conti con la storia coloniale del proprio paese. E con le nefandezze che questa storia ha comportato.
Se si escludono i fondamentali saggi storici di Angelo Del Boca e il gran lavoro di documentazione di Sandro Triulzi, nessuno narratore e nessuna narratrice si è mai misurato su questi temi. Pertanto, il falso mito degli “italiani brava gente” ha proseguito nella sua diffusione incontrastato e indiscusso.
Accade così che, leggendo il libro, la nostra memoria e la nostra coscienza subiscano subito un salutare scossone. Proprio nell’incipit, Igiaba Scego ricostruisce la tragica fine dei (circa) cinquecento italiani che vennero sconfitti e uccisi nella battaglia di Dogali del 1887 da un folto numero di guerrieri abissini comandati dall’astuto Ras Alula, in lotta per la liberazione del proprio paese.
Ancora oggi in Italia questo episodio viene ricordato con una forte impronta colonialista che di quella battaglia “colpevolizza” i patrioti, vincitori, e mitizza gli invasori, sconfitti. Il grande piazzale davanti alla stazione Termini di Roma è dedicato infatti ai “cinquecento” anche se forse nessuno tra le migliaia di persone che lo attraversano ogni giorno sa a cosa ci si riferisce.
In quel periodo l’Italia era appena nata e, per sentirsi all’altezza delle altre potenze europee, aveva intrapreso le campagne di colonizzazione. Queste campagne erano nutrite da un fortissimo complesso di superiorità nei confronti dei popoli africani che, senza timore, possiamo definire razzismo. Lo stesso razzismo che portò il tenente colonnello De Cristoforis, alla guida della colonna dei Cinquecento, a sottovalutare le capacità strategiche e le abilità militari del nemico.
Ma quando accaddero i fatti, tutte queste dinamiche non contarono nulla. Prima la notizia venne occultata, poi i superstiti vennero accolti come eroi e infine i “negri” definitivamente incolpati di ogni malefatta.
Per questo motivo una ragazza americana dalla pelle nera, mentre si trovava a passeggio per Roma, vicino a piazza Colonna, in quegli anni venne aggredita e insultata a causa dei fatti di Dogali. Si chiamava Lafanu Brown. Era una donna indipendente, colta e innamorata dell’arte perché amava dipingere. Lafanu frequentava spesso Roma, dove per un certo periodo aveva tenuto un atelier tutto suo. Nonostante amasse moltissimo Roma, Lafanu Brown notò che, dopo la dichiarazione dell’unità d’Italia, la città era molto cambiata (in peggio), indaffarata com’era a dimostrare di essere al livello delle altre capitali europee.
Lafanu Brown è il filo conduttore di un racconto che unisce sapientemente le vicende storiche con la denuncia del razzismo e mantiene un occhio attento alle condizioni degli ultimi, degli immigrati in particolare. Come tiene molto a dire l’autrice, La linea del colore non è in alcun modo un romanzo storico. Ma letteratura a tutto tondo.
Le donne e solo le donne occupano la parte principale del racconto. “Danzano” intorno a Lafanu, circondandola di affetto o cercando di ostacolare la sua emancipazione oppure ancora mostrando prostrate le loro ferite. Sono le figure che animano un racconto che trova il suo elemento propulsore nell’amore per il viaggio, per la conoscenza, per l’arte e per il bello. In definitiva, per la vita.
L’Africa, Haiti, gli Stati Uniti, Mogadiscio, la Somalia, Glasgow, la Gran Bretagna, Tripoli, l’Italia, Roma e Venezia sono alcuni tra i luoghi più importanti dove si svolge una storia che si articola su diversi piani temporali che, per aiutare il lettore, sono impaginati nel libro in un carattere tipografico diverso.
Nonostante i diversi piani, di cui si è detto, il racconto di Igiaba Scego è sempre fortemente attratto dall’attualità contemporanea. Sono molti gli elementi di ormai due secoli fa che ricorrono anche nelle cronache dei giorni nostri. E il viaggio, il diritto al viaggio emerge nella sua importanza vitale ed è un’altra questione che noi sottovalutiamo quando pensiamo ai tanti diritti umani negati alle persone che emigrano.
Lo spirito di osservazione e la sensibilità estetica dell’autrice arricchiscono il racconto con riferimenti importanti della nostra condizione civile, piazze, monumenti, fontane che ci aiutano a fare riemergere un passato che troppi elementi ha in comune con il presente. “Mori” ovvero schiavi, incatenati ai piedi del condottiero, nomi di luoghi che sembrano non dire più nulla e che invece sono pieni di storia di vite e di ingiustizie.
Lafanu Brown non è mai esistita. È il frutto dell’immaginazione della scrittrice. Ma raccoglie in sé i caratteri e le biografie di alcune donne nere, colte e talentuose che vissero proprio a Roma in quel periodo. Tentativi di libertà, forse occasioni perse per la nostra cultura che avrebbe potuto essere più disponibile, anche se a tratti è riuscita a essere accogliente.
L’immagine conclusiva, ma non del libro, è data dalla contemporaneità. Un gruppo di vigili tedeschi, in Germania, salvano un topo rimasto incastrato nelle grate di un tombino perché troppo grasso. E tutti si compiacciono della grandezza e magnanimità della nostra “civiltà” occidentale.