- Il conflitto fra Israele e Palestina ha da sempre il potere di far schierare in modo parossistico in due ‘partiti’ contrapposti. Perché hai deciso, dopo il 7 ottobre, di curare una antologia di brevi ma densi testi sulla questione. Come hai scelto gli autori e i temi?
Bruno Montesano Goffredo Fofi mi ha chiesto di curare una raccolta nel dicembre 2024. Insoddisfatto del dibattito pubblico italiano e della discussione a sinistra, ho pensato così di raccogliere quelli che mi sembravano i migliori interventi sul tema usciti sulla nostra stampa e su quella internazionale a cui ho avuto accesso. A questo ho aggiunto alcuni interventi che ho chiesto a persone di cui mi eran piaciute delle cose che avevano scritto. Come dice il titolo, lo spirito del libro è l’antinazionalismo e lo scandalo per la disumanizzazione dei palestinesi che passava nella stampa italiana – peggiore di quella anglofona. Di questo parlano gli interventi della scrittrice palestinese Hala Alyan, così come quello della direttrice di Jewish Currents Arielle Angel ma anche di Luigi Manconi.
- Nella tua introduzione al libro scrivi che per uscire dall’impasse della guerra infinita bisogna pensare al superamento dello Stato nazione, la cosa che sembra più impossibile stante l’attuale situazione. Su quali soggetti politici e sociali pensi si potrebbe contare? Come pensi un possibile processo di riconciliazione?
BM La discussione sullo stato binazionale è stata spesso relegata a una contrapposizione tra “utopia irrealistica” e la presunta concretezza della partizione in due Stati. Questa prospettiva emerge anche nelle analisi di Judah Magnes, primo rettore della Hebrew University e fondatore del gruppo Brit Shalom, insieme a Hans Kohn e Gershom Scholem, con l’adesione successiva di Martin Buber. Negli anni più recenti, intellettuali come Tony Judt, Edward Said e Judith Butler si sono espressi a favore di questa idea. Edward Said, in particolare, contribuì a fondare, con Moustafa Barghouti, l’Iniziativa Nazionale Palestinese, un partito nato per contrastare il duopolio politico di Hamas e Fatah. Recentemente, lo stesso Barghouti ha dichiarato in un’intervista a El País, citando Daniel Barenboim: “Sometimes the impossible is easier than the difficult” (“A volte l’impossibile è più facile del difficile”). È quindi necessario uno Stato che garantisca pari diritti sia ai palestinesi che agli ebrei che vivono in quella terra.
La soluzione dei due Stati non solo appare sempre più impraticabile a causa dell’espansione delle colonie israeliane, ma perpetuerebbe la tensione e la violenza reciproca. Uno Stato unico, invece, permetterebbe di superare il principio etnico, adottando una visione egualitaria e universalista. Ciò che oggi può sembrare impossibile potrebbe, paradossalmente, rivelarsi l’unica soluzione. Certo, un cambiamento di tale portata richiede tempo e soggetti politici in grado di portarne il peso. Il processo di riconciliazione dovrebbe prevedere misure di riparazione e il riconoscimento dei torti subiti, creando così le basi per un nuovo equilibrio democratico. Sul tema, il libro di Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia (Feltrinelli), offre spunti di riflessione preziosi.
Attualmente, l’opposizione alla guerra e alla politica di Netanyahu proviene in gran parte dalla destra israeliana. Sono pochissimi i gruppi che si dichiarano apertamente contrari al massacro di Gaza e favorevoli all’eguaglianza tra ebrei israeliani e palestinesi. Nel libro che ho curato, Sarah Parenzo affronta il tema della sinistra di fede: una sinistra che trae le sue radici dalla tradizione ebraico-religiosa, ma che si impegna a disarticolare il legame tra sovranità e libertà ebraica, per promuovere una prospettiva di convivenza e giustizia con i palestinesi.
- L’altro punto che metti in rilievo che mi pare molto importante è sulle caratteristiche proprie del colonialismo israeliano. Dove è la sua diversità?
BM Ci sono diversi tipi di colonialismo. Nel caso di Israele, si parla di colonialismo di insediamento, ovvero un tipo di colonialismo che non mira principalmente all’estrazione di risorse o allo sfruttamento della popolazione locale, ma piuttosto alla creazione di una nuova società e sovranità, in cui una popolazione si sostituisce a quella autoctona. Questa analisi ha iniziato a circolare dagli anni ’60 e oggi è piuttosto diffusa. Un esempio significativo è il libro di Rashid Khalidi, The One-Hundred Years’ War on Palestine, che verrà tradotto in italiano da Laterza. Ritengo che questa prospettiva sia valida, ma anche parziale.
Se è vero che i coloni europei in America erano spesso rifugiati e migranti, il caso della Palestina presenta specificità uniche. Gli ebrei, quasi per definizione, non avevano una patria fino alla nascita di Israele, e il loro nazionalismo – simile a quello ottocentesco di altri gruppi culturali e religiosi discriminati – non era rivolto a una terra in cui risiedessero già stabilmente. In Palestina vivevano alcuni ebrei, ma costituivano una minoranza. Tuttavia, il nazionalismo sionista includeva una dimensione coloniale, in quanto molti nazionalismi dell’epoca erano intrisi di tali caratteristiche. All’epoca, “razza” e “popolo” erano spesso sinonimi.
L’antisemitismo e, successivamente, la Shoah hanno dato slancio alla necessità di un rifugio sicuro per gli ebrei perseguitati. Ma, una parte del sionismo, per realizzare questo obiettivo, ha negato l’identità palestinese, descrivendo i palestinesi come semplici “arabi” e suggerendo che si disperdessero nei Paesi limitrofi. Quindi, già prima del 1948 e della Nakba, si può parlare di colonialismo di insediamento, pur tenendo conto delle peculiarità del caso.
Dopo il 1948, i palestinesi rimasti in Israele sono stati soggetti a discriminazioni fino al 1966, vivendo sotto un regime giuridico di tipo amministrativo-militare, a differenza degli ebrei israeliani. Non godevano di pari diritti, contrariamente a quanto dichiarato nella Dichiarazione di indipendenza. Con il 1967, l’occupazione militare della Cisgiordania ha inaugurato una forma di governo coloniale-militare. Va sottolineato che la Cisgiordania non era stata riconosciuta come “Palestina” anche per colpa di altri Paesi arabi della regione, come la Giordania. Da allora, si è consolidata un’etnocrazia che pratica una discriminazione sistematica contro i palestinesi, sia all’interno che all’esterno dei confini del 1948. Questa situazione è stata definita “apartheid” da organizzazioni come B’Tselem e Amnesty International.
Ciò che vorrei evidenziare è che, al di là delle specificità coloniali di Israele, esiste un tratto nazionalista comune a tutti gli Stati-nazione: la priorità data a una popolazione definita come maggioritaria rispetto a una minoranza, spesso discriminata e mai del tutto integrata. In Israele, questa discriminazione è più marcata, poiché l’identità ebraica non è facilmente acquisibile, a differenza di quella italiana o tedesca (anche se queste identità hanno comunque implicazioni razziali più o meno esplicite). Questo aspetto accentua il carattere oppressivo di uno Stato-nazione che si definisce come “ebraico”.
Un altro problema, come osserva Slavoj Žižek in La violenza invisibile, è che la violenza israeliana rimanda alla recente fondazione della sovranità statale. Il suo scandalo è particolarmente evidente perché il crimine fondativo (la Nakba) è avvenuto solo 78 anni fa, in un’epoca in cui la sovranità occidentale stava già subendo limitazioni imposte dal diritto internazionale. Lo Stato, in questo contesto, resta un elemento cruciale, e i suoi tratti oppressivi si manifestano in modo evidente.
Credo – in ogni caso – che sia fondamentale evitare che, qualora i rapporti di forza si ribaltassero, si replichi sugli ebrei israeliani la violenza subita dai palestinesi. L’antinazionalismo è necessario per spezzare la spirale di violenza. Tuttavia, temo che una visione puramente decoloniale, che affermi un nativismo radicale dove solo gli autoctoni possono rivendicare la terra, rischi di essere dannosa. Sebbene molti ebrei israeliani abbiano doppia cittadinanza, ciò non vale per la maggioranza. Non esiste una “madrepatria” per gli ebrei coloni, quindi non credo che nessuno debba andarsene. Tuttavia, il razzismo istituzionale israeliano deve essere smantellato.
Ovviamente, il nazionalismo dei palestinesi oppressi ha una sua legittimità e ragioni valide. Ma, per dirla con Gayatri Spivak, andrebbe articolato in termini di “essenzialismo strategico”. Inoltre, come ricordava Fanon – spesso citato in questi contesti – bisogna tenere a mente i “limiti della coscienza nazionale”. Fanon, infatti, era un universalista: sosteneva un universalismo diverso, non gerarchico e non razziale. Questa lezione postcoloniale dovrebbe essere riscoperta
- Quale è il possibile ruolo della comunità internazionale e come possiamo sostenere i movimenti progressisti sia in Israele che in Palestina.
BM Ho dei dubbi sul boicottaggio accademico ma complessivamente penso che il boicottaggio possa essere una delle armi da usare. Corte penale e corte di giustizia internazionale sono degli strumenti fondamentali ma mostrano anche il limite del diritto internazionale: senza una spada il sovrano può poco. Più in generale bisogna fare pressione sui propri governi affinché isolino e perseguano i crimini di guerra e contro l’umanità della dirigenza israeliana. Dal basso bisogna fare mobilitazioni e discussioni che favoriscano la fine di apartheid e occupazione in Israele-Palestina. E bisogna lavorare con la dissidenza israeliana e con i gruppi palestinesi che lottano contro l’occupazione ma anche contro Fatah e Hamas. Dalle ong più note come “BTselem” ai comunisti di “Hadash” come Ayman Aadil Odeh o Ofer Cassif, o a Moustafa Barghouti, dal gruppo di ebrei e palestinesi “Standing Together” agli obiettori di coscienza di “Mazarvot” e al “Centre for Jewish non violence”, dai gruppi radicali antisionisti alla resistenza nonviolenta di Massafer Yatta.
- Molti sostenitori della causa palestinese sostengono che il 7 ottobre è il sintomo del fallimento di ogni altra via pacifica e che – piaccia o no – rappresenti la resistenza dei palestinesi che è identificata con Hamas. Cosa ne pensi?
BM Penso che sia vero ma al contempo che questo non giustifichi i crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile israeliana e contro i migranti che lavoravano nei kibbutzim. Un conto è dire che la resistenza armata è legittima contro l’occupante militare, un altro è che anche ammazzare o rapire i civili lo sia. Hamas non ha ragione solo perché è palestinese e il suo ruolo centrale nella resistenza non lo colloca al di sopra della possibilità di critica. Il pensiero politico e i movimenti palestinesi sono molto più plurali – ideologicamente e strategicamente – di quanto alcuni orientalisti al contrario vogliono che pensiamo. Comprendere le ragioni dell’attacco non equivale a gioire della morte di almeno 800 civili né alla presa degli ostaggi. Né a dire idiozie come quella che in Israele non esistano civili, in quanto coloni o riservisti in riposo. Giustizia, lotta politica e vendetta non sono sinonimi.
- Dopo il 7 ottobre ci sono state molte manifestazioni e occupazioni di università da parte di una nuova generazioni di attivisti ‘pro-Palestina’ sia italiani che di origine palestinese o stranieri di seconda generazione, il tuo libro e/o le problematiche che mette in rilievo sono stati presentati e discussi in queste situazioni? Sto pensando in particolare al fatto che in molti sostenitori della Palestina si rifanno al pensiero decoloniale.
BM Mi hanno invitato in festival e centri sociali, ho fatto alcune presentazioni all’università e in una Camera del lavoro della CGIL e a breve in dei circoli Arci. Ne ho discusso con diversi compagni della sinistra radicale e non. I riscontri sono stati per lo più positivi. Anche in alcune parti del movimento, c’è una sotterranea insoddisfazione per come quest’anno le proteste sono state gestite. Così come in alcuni contesti si afferma una consapevolezza dei limiti dell’identitarismo e della necessità di fare i conti anche con l’antisemitismo a sinistra – che sì viene strumentalizzato e usato come clava per reprimere il dissenso ma che è anche un problema sempre più serio e sottovalutato. Inoltre le posizioni decoloniali dovrebbero venire elaborate più criticamente come detto sopra e come scrive in uno degli interventi del libro Anna Momigliano.
- Nelle comunità ebraiche italiane come è stato accolto il libro, è stato discusso?
BM No, ho discusso con diverse persone ebree che hanno apprezzato il libro ma nessun invito è arrivato. A Milano la presentazione l’abbiamo fatta, oltre che con Maria Grazia Meriggi e Valentina Cappelletti, con Gad Lerner, Anna Momigliano e Gadi Luzzato Voghera (presidente del Centro di Documentazione Ebraica). David Bidussa e Claudio Vercelli, Roberto della Seta e Lia Tagliacozzo hanno recensito molto generosamente il libro su diverse testate. Dal punto di vista del contenuto, c’è affinità con il gruppo ebraico Mai Indifferenti e con gli altri collettivi ebraici non sionisti o antisionisti che han criticato sin da subito la strage a Gaza, la discriminazione sistemica dei palestinesi e l’ignobile alleanza tra dirigenze delle Comunità ebraica e destra postfascista. Questo solo per dire che ci sono diverse voci nel mondo ebraico.
L’alleanza con l’estrema destra nel nome dell’amicizia verso Israele e della lotta contro l’antisemitismo è vergognosa. Deve però emergere un’opposizione progressista più forte in seno alle comunità. Certo il trauma del 7 ottobre ancora resiste ma è inaccettabile che si veda antisemitismo ovunque – così facendo perdere il valore dei veri casi di antisemitismo che pure sono in crescita -, che si vada a braccetto con veri antisemiti come quelli di governo e che al contempo si taccia dei morti in Palestina ammazzati dall’esercito israeliano e disumanizzati dalla stragrande maggioranza della classe dirigente israeliana.
Finita l’intervista è arrivata la notizia della tregua che speriamo regga.
- Al di là delle modalità con cui il governo di Israele, Hamas, il Qatar, gli Stati Uniti, l’Egitto e altri attori politici gestiranno una tregua e, si spera, la fine del conflitto, è possibile immaginare che questa rappresenti un’occasione per le due popolazioni civili di aspirare a una speranza per la costruzione di un futuro più giusto?
BM Dopo il 7 ottobre intervistai Dimi Reider, giornalista tra i fondatori del sito israelo-palestinese “+972”. Diceva che, dopo il 7 ottobre e la ritorsione indiscriminata israeliana, sarebbero serviti 50 anni al meno prima di arrivare alla coesistenza. Non ho idea di quanto tempo serva. Né quanto durerà questa tregua. Quello che bisogna tenere conto è che Israele è molto spostata a destra – ossia indisponibile a cedere alcunché, ipnotizzata dai propri traumi e insensibile alla devastazione portata a Gaza e nella regione. Egualmente una popolazione che ha visto morire 70.000 persone, che non ha più casa né infrastrutture civili, non penso sia portata a ragionare sulla coesistenza. Netanyahu voleva distruggere Hamas, gli ha fornito leve per altri decenni. Non so se si salverà. Ma chi verrà dopo molto probabilmente non sarà migliore. Ad ogni modo non vedo alternative a costruire percorsi di solidarietà dal basso e pressioni internazionali dall’alto. Ognuno come può deve contribuire a porre fine all’ingiustizia a cui i palestinesi sono sottoposti da decenni.