Rispondere alla domanda posta nel titolo non è certo un gioco da ragazzi. Ma Isaac Bashevis Singer, premio Nobel nel 1978, autore di romanzi come Ombre sull’Hudson (1957) e Il mago di Lublino (1960), qualche asso nella manica ce l’ha sempre. I saggi sparsi di arte, letteratura e cultura ebraica, raccolti da Davide Stromberg (l’edizione americana è uscita nel 2022 per Princeton University Press), ora tradotti da Adelphi, coniugano un’alta visione estetica e spirituale, con sorprendenti intuizioni sulla ventura intelligenza artificiale («Di fronte a una macchina in grado di raccontare storie e scrivere testi teatrali le persone creative non avrebbero più uno scopo») e sulla natura divina («Dio si rivela, ma gradualmente – una riga dopo l’altra. Chiede fiducia al lettore»).
Presago della graduale marginalità del fatto letterario nel futuro prossimo («La narrativa potrebbe diventare un divertente sport per dilettanti»), energico sostenitore della bellezza quale virtù somma («L’arte brutta non esiste. Se è brutta, non è arte»), Singer si dimostra un autore modernista a tutti gli effetti: è esplicitamente contrario all’ampliamento e all’ibridazione della nozione di letteratura, teme che il saggismo e il cronachismo della “condizione postmoderna” possano snaturare l’unico vero obiettivo del prosatore: «L’errore più grave che uno scrittore possa fare è presumere che l’epoca del godimento estetico sia finita e che gli artisti possano permettersi di annoiare il pubblico in nome di uno scopo superiore». E ancora: «Per quanto terribili possano suonare le mie parole, gli scrittori sono intrattenitori nel senso più alto del termine». È necessario dunque lavorare sul rapporto simbiotico, secondo Singer, di trama e forma (“struttura e ritmo”), raccontando il più possibile storie che diano conto del “cuore delle cose”, della “sostanza dell’essere e della creazione”. Senza sovrastrutture teoretiche contaminanti, senza pretese di astrusità linguistica e concettuale. In sostanza, Singer – straordinariamente “crociano” – auspica la rinascita di “un’arte dal carattere puro”.
La raccolta, ampia e variegata per temi affrontati, comprende interessanti considerazioni sulla prossimità e sulla distanza tra giornalismo e scrittura letteraria, su “vecchie verità e nuovi cliché”, testi per bambini e adulti, la Qabbalah nei tempi moderni, l’ebraicità («Credo che l’ebraicità abbia un certo numero di dimensioni – non chiedetemi quante»), l’yiddish (“lingua dell’esilio”) e il teatro, il concetto personale di religione. Non manca, nella prospettiva critica singeriana, una robusta speranza romantica: «Sono convinto che la vera arte non possa scomparire. Il talento genuino è dotato di una forza che nessuno può contrastare». D’altra parte, i veri artisti «sanno che siamo frammenti dell’infinito libro di Dio, momenti dell’eternità».