Dopo aver chiuso questo libro, ho pensato a che titolo avrei potuto dare alla mia recensione. Il primo che mi è venuto in mente è il più famoso libro di racconti di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Poi ho pensato anche a Ogni storia è una storia d’amore di Alessandro D’Avenia. E se mi ci mettessi mi verrebbero certo in mente molti altri titoli. Perché quando ho chiuso questo libro ho pensato: ma queste sono storie d’amore. A dispetto dell’ambientazione, il casolare diroccato, umido e maleodorante nel mezzo delle montagne dei Pirenei, il luogo inospitale nel quale vengono accolti nuovi arrivati e nuove vite. A dispetto della bruttezza disincantata delle protagoniste, donne a cui manca qualcosa o che hanno qualcosa che le deforma e le rende diverse e grottesche, a volte spaventose. Joana, per sposarsi ha fatto un patto col diavolo, che le ha giurato una progenie maledetta. Bernadeta ha gli occhi senza ciglia, e siccome da bambina le hanno versato acqua di timo vede solo le cose sbagliate. Margarida ha un cuore a tre quarti, senza un pezzetto. E Blanca è nata senza la lingua, la bocca vuota come un nido, ascolta e non parla. Donne tuttavia piene di desiderio e capaci di perseguire quel desiderio e dargli voce e corpo, e soprattutto modo di generare una nuova vita.
Mentre i piani temporali si alternano e si confondono, le donne del casolare Mas Clavell generano discendenze che si prendono cura del passato e del futuro. Gli uomini vanno, passano, vengono uccisi, lasciano il loro seme e raramente altre tracce. Il Mas Clavell sopravvive a ogni uomo e a ogni tempo. Nella sua cucina si mescolano profumi e sapori, tradizioni e invenzioni. La sporcizia si accumula e poi viene spazzata via. La luce lo invade, poi scompare in un’oscurità piena di mistero. La vita e la morte si alternano e si mescolano. Niente è quello che sembra, e ognuna delle donne sembra avere un filo diretto con l’aldilà, con i diavoli, con Dio, con le dicerie e le credenze. Nella loro goffaggine, nella loro deformità, nelle loro bizzarrie le donne del Mas Clavell cercano e trovano l’amore, che sia anche solo un attimo, e che venga fermato per sempre nella gravidanza e nel generare una nuova creatura. Il parto è dolore e gioia, ma è sempre un atto d’amore.
Non sono vite affascinanti, non sono vite facili o brillanti, quelle delle donne del Mas Clavell. Sono vite così lontane da noi, dal nostro mondo e dalle nostre esperienze, che costringono l’immaginazione ad andare più in là, a trovare un nuovo spazio e un nuovo tempo. C’è una cupezza cercata e un certo piacere del disgusto e dell’orrendo, in questa narrazione. Condensata, densissima. Che ci costringe a un’attenzione costante mentre ci propone deformazioni e copule, insetti orribili e cibi prelibati. In fondo, dietro agli aggettivi ripugnanti, dietro le descrizioni un po’ disgustose, si cela non solo un grande bisogno d’amore, ma anche una grande capacità d’amore. Come se stessimo in una favola, e sapessimo che sotto le sembianze dell’orco si cela un animo buono, e si tratta solo di trovare le parole giuste per farlo apparire. Qui, in questo romanzo, non ci sono le parole giuste ma ci sono gli occhi. Gli occhi con cui guardare le tenebre sono gli occhi dell’amore. Le tenebre le possiamo attraversare, per arrivare in luoghi che non sapevamo nemmeno potessero esistere. E non c’è atto più generoso che quello di donare gli occhi. Un supremo atto d’amore.