Di perfette, suggestive rievocazioni storiche che ricostruiscono narrativamente una determinata città in un determinato periodo è piena la letteratura, e anche molti capolavori si dimostrano nostalgici omaggi a un mondo perduto, a una geografia stravolta dal tempo. Questa vena si divide in due: c’è il recupero semi-autobiografico di una città cancellata dalla modernità, un mondo che non tornerà mai più, non necessariamente cristallizzato nel rimpianto — la città della nostra infanzia — e poi c’è la minuziosa ricostruzione d’ambiente, che non è soltanto topografico o architettonico, ma soprattutto umano, psicologico. La stragrande maggioranza di queste opere racconta grandi città che giocano un notevole ruolo nell’immaginario comune: New York, Parigi, Roma, Barcellona, Tokyo, Buenos Aires, e ci sarebbero centinaia di esempi.
Sono felice di scoprire che questo gusto non conservatore per la storia della civiltà urbana sta conquistando sempre nuovi lettori, e di conseguenza si allarga a città meno frequentate dalla letteratura. Ho quindi accolto questo La vita comincia venerdì con piacere autentico: la vicenda si svolge a Bucarest nelle ultime due settimane del 1897, in un’ambientazione così vivida che la topografia della città sembra sollevarsi tridimensionale dalle pagine. Un mondo e un’epoca per me nascosti nell’ombra, una geografia che di solito consideriamo marginale ma che in quegli anni era inserita nel circuito culturale, politico e artistico mitteleuropeo.
La “stupefacente macchina del tempo” (definizione di Bruno Mazzoni, dalla postfazione) dell’opera è dovuta al fatto che Ioana Pârvulescu (nata nel 1960, docente alla facoltà di Lettere all’università di Bucarest), autrice di saggi sulla vita quotidiana in Romania nel periodo raccontato dal libro, ha dalla sua notevoli doti di narratrice dalla prosa brillante e ricca di dettagli.
La trama, già di per sé complessa e originale, è inoltre complicata da un elemento fantastico: uno dei personaggi, Dan Creţu, è apparentemente un uomo del nostro tempo che si trova inesplicabilmente proiettato di oltre un secolo nel passato. Ma è veramente così oppure, come egli per primo sospetta, il futuro è solo un complesso sogno allucinato dal quale si è appena risvegliato? Nelle prime pagine, un cocchiere trova due uomini privi di sensi in un bosco alla periferia di Bucarest: il primo è Creţu appunto, il secondo un giovane gravemente ferito, forse in duello, che morirà poco dopo proferendo parole senza senso. La trama ha il ritmo della detection, con uno dei protagonisti, il poliziotto Costache Boerescu, che poco per volta porta alla luce una storia di portafogli scomparsi, duelli proibiti e oggetti sacri trafugati – storia quest’ultima peraltro vera, come si capisce dagli “allegati” che l’autrice mette in appendice: ma è chiaro che l’enigma principale, quello su cui si interrogano tutti i numerosi personaggi, che a turno si passano il testimone del punto-di-vista, è: “Dan Creţu davvero viene da un altro mondo”? Ma il romanzo è soprattutto una magnifica galleria di protagonisti e situazioni narrative più da commedia che da tragedia, con innamoramenti e tradimenti, un libro ottimista e godibile che nella prefazione all’edizione svedese (prefazione tradotta e inclusa qui in appendice) Mircea Cărtărescu definisce “insolito anche nel contesto della letteratura romena attuale” perché “non è un testo ideologico, non erige barricate, né ha la pretesa di avere in mano verità inconfutabili”.
Bene ha fatto Voland, forse nella scia della pubblicazione del ben più noto Cărtărescu, a tradurre e mettere in catalogo questo originale romanzo, modello in scala della Bucarest di fine secolo, “un modello in scala che, ben presto, ci sembrerà di un inquietante realismo”.