I robot positronici sono ideati da Isaac Asimov negli anni Quaranta del Novecento, insieme al ciclo della Fondazione dove si narrano le sorti dell’impero galattico. I racconti sui robot seguono le vicissitudini scientifiche e umane dell’ineffabile Susan Calvin, caratteraccio dispotico ma capace di intuizioni fenomenali riguardo alla psicologia delle sue creature metalliche. È in questo periodo che Asimov concepisce le fondamentali tre leggi della robotica, celeberrime fino ai giorni nostri e atte a regolare il comportamento delle “macchine pensanti”. I racconti che riguardano i robot vennero pubblicati abbastanza presto in Italia, dopo la loro uscita negli USA nelle classicissime pagine di Astounding Science Fiction del decano John W. Campbell jr. Ma il primo racconto, il seminale “Robbie”, dopo diversi rifiuti uscì nel pulp magazine di fantascienza Super Science Stories (con il titolo “Uno strano compagno di giochi”) curato in quel momento dal già autorevole Frederik Pohl. Anno 1940. Il secondo volume pubblicato da Il Saggiatore, dopo Sogni di robot del 2014, riunisce le storie di queste creature piene di dilemmi e protagoniste di avventure quasi sempre enigmatiche se riferite alla corrente logica umana. Asimov ricorre a veri e propri salti mortali dialettici affinché Susan Calvin e i suoi colleghi scienziati riescano a districare situazioni a prima vista incomprensibili. I cervelli positronici dei robot hanno a che fare con le ferree leggi della robotica, quel che combinano nelle loro vicende spesso risulta oscuro e incoerente perfino ai loro ideatori.
Asimov ha spiegato in numerosi saggi, presenti anche in questo volume, cosa significasse per lui l’interazione fra gli uomini meccanici e la popolazione terrestre, sia partendo dal termine ideato da Karel Čapek nel 1920 (“robot”, derivante dal ceco “robota”, “lavoro”), sia uniformandosi al proprio desiderio di creare qualcosa che non fosse pericoloso e che potesse svolgere lavori consistenti. Il bisogno di energia venne risolto con l’invenzione del “cervello positronico”, fonte del tutto sconosciuta ma utile e versatile, dato incontrovertibile che emendava Asimov dal dilungarsi in pompose spiegazioni pseudoscientifiche. Il suo interesse andava unicamente alle situazioni psicologiche e rischiose presenti nelle “cronache robotiche” che stava scrivendo.
Leggere e rileggere oggi i racconti compresi in Visioni di robot (e in Sogni di robot) provoca un certo grado di slittamento distopico. Il futuro immaginato dalle generazioni nate negli anni precedenti le guerre mondiali è fondato su specializzazioni tipicamente “meccaniche”, figlie della rivoluzione industriale, nessuno poteva immaginare azzardi che andavano ben oltre i primi passi della science fiction, come la miniaturizzazione circuitale, o l’insondabile mare magnum delle onde elettromagnetiche alla sua massima estensione, men che meno l’avvento del Web. Ogni razzo, ogni automa, ogni macchina scientifica era fatta unicamente di metallo, leve, ingranaggi, pulsanti e bottoni, niente più di quanto si poteva vedere dentro le fabbriche. Lo stesso Asimov, descrivendo i suoi robot, ne esalta la lucentezza metallica, il clangore delle loro parti, i dettagli che niente hanno a che fare con l’umanità, se non per qualche tratto di leggera somiglianza fisionomica. Ricordiamo tutti il film Pianeta proibito, il razzo che porta gli esploratori su un mondo abitato da uno scienziato, da sua figlia, e soprattutto da Robbie the Robot, nominato perfino (giustamente) nella locandina del lungometraggio. La sua resa meccanica è controbilanciata soltanto dalle reazioni psichiche di abitanti ed equipaggio, e dalla musica “elettronica” scritta da Louis e Bebe Barron. Prima volta per questo genere di musica in un film mainstream e debutto cinematografico delle leggi della robotica ideate da Asimov.
L’odierna visione dell’intelligenza artificiale, oggi ampiamente dibattuta, poco ha a che fare con il futuro immaginato in quegli anni, dunque possiamo ben dire che l’attuale futuro non è più quello di una volta. Nessuna automobile sfreccia liberamente per aria fra altissimi grattacieli di sterminate metropoli, nessuna macchina antropoide si aggira fra gli umani per le strade cittadine. I viaggi nel tempo non esistono e forse mai esisteranno. Gli esperimenti riguardanti esoscheletri robotizzati sono ancora in fase sperimentale in laboratori d’avanguardia. I viaggi spaziali sono fermi da decenni. Tranne alcune sonde inviate in giro per il sistema solare (e le due Voyager, prodigiose, che ormai hanno superato i confini governati dalla stella Sole). La ISS fa quel che può e verosimilmente sta giungendo al termine della sua vita. Per come vanno le cose appaiono più probabili le visioni catastrofiche descritte da James G. Ballard nei suoi romanzi Il mondo sommerso e Terra bruciata, comprendendo anche lo straordinario Super-Cannes. Guardate Blade Runner: è vero che le automobili volano e l’umanità ha fondato colonie extra-mondo, e i replicanti sono tanto perfezionati da essere indistinguibili dai loro costruttori, ma gli strumenti elettronici hanno un aspetto fortemente retrò, le fotografie vanno scannerizzate per visualizzarle su monitor arrotondati, e non c’è traccia del Web. Discorso a parte meriterebbe 2001: A Space Odissey di Kubrick, in cui la visionarietà filmica del regista unita a quella scientifica di Arthur C. Clarke hanno prodotto un’opera che ha saputo varcare il secolo mescolando vintage e azzardo futuribile senza quasi perdere credibilità.
Qualcosa non ha funzionato nell’immaginario collettivo e artistico del Novecento, ma si potrebbe presumere che l’errore di fondo sia a carico del futuro che stiamo vivendo, figlio di una civiltà di cui non si sa più niente. Asimov ha vissuto fino alle soglie di questa rivoluzione, forse iniziava a presentire temibili sviluppi, preparandosi ad affrontare interrogativi imprevisti: forse i robot futuri saranno ben più minacciosi degli originali asimoviani, e in grado di scavalcare le tre leggi della robotica fino a ieri imprescindibili, oltre che eticamente perfette. Il 2029 di Terminator non è poi così lontano, hasta la vista baby.