Il massacro ebbe luogo nel villaggio vietnamita di Sõn Mӱ, il 16 marzo 1968. Quella mattina i soldati della 23a Divisione di fanteria statunitense trucidarono uomini, donne e bambini, mutilarono e stuprarono. Si attennero con zelante scrupolo agli ordini: distruggere tutto ciò che camminava, strisciava o cresceva. Furono cinquecento, forse più, i morti in quello che negli Stati Uniti divenne noto come il massacro di Mӱ Lai. Negli stessi giorni, in una cittadina messicana a migliaia di chilometri da Sõn Mӱ, Sam Peckinpah cominciava le riprese di un film che avrebbe mostrato la terrificante violenza connaturata nella specie umana a un livello mai raggiunto prima da un’opera cinematografica: Il mucchio selvaggio.
Con questo folgorante incipit si apre il libro di William Kip Stratton, scrittore e giornalista statunitense: uno studio pervasivo, tradotto da Claudio Mapelli, di quel film leggendario e del suo parimenti leggendario regista. I sei capitoli che costituiscono il volume, frutto di puntuali ricerche biografiche, di interviste condotte negli anni e di una robusta mole storiografica, sono una vera goduria per gli amanti del cinema (e non solo), zeppe come sono di dati fattuali e gustosissimi aneddoti, brulicanti di figure memorabili. Si ricostruiscono nel dettaglio tutte le fasi che portarono alla realizzazione del film, dall’ideazione del soggetto, ai tortuosi passaggi per redigerne la sceneggiatura e trovare un produttore, al casting dei protagonisti, delle comparse, alla ricerca delle location. Si analizzano le scene, si descrivono gli incidenti che si verificarono durante le riprese, si scovano anacronismi, si citano i modelli delle armi, delle macchine d’epoca, della motrice usata per le celebri sequenze della rapina al treno: un poderoso affresco dipinto sull’onda d’uno sconfinato amore per quel film, per il suo regista, una lunga cavalcata condotta in un parallelismo tra storia contemporanea degli USA e storia del cinema.
Quanto agli attori, Stratton non si limita a tratteggiare le figure dei protagonisti (William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Warren Oates, Edmund O’Brien, Ben Johnson, Jaime Sánchez), dei registi che hanno fatto la storia del cinema messicano e che in questo film recitarono (Emilio “El Indio” Fernández, Chano Urueta): ricostruisce anche i percorsi artistici e biografici di tutti coloro che risultano nei credits, e anche di chi non vi compare ma vi ebbe un ruolo, in un’affascinante rete di corrispondenze tra fiction e realtà, tra trama del film, relazioni tra i personaggi e vicende esistenziali reali. Questo soffermarsi su personaggi apparentemente secondari o poco conosciuti, in realtà fondamentali per la realizzazione dell’opera, è forse il pregio maggiore di questo lavoro. Di tutti si ripercorrono agilmente le biografie e l’intreccio di vicende nei tre mesi di riprese, con prosa chiara e coinvolgente: è un affascinante viaggio nel tempo, nelle viscere del continente americano più autentico.
Ecco assurgere a protagonisti stuntmen (tra le figure più avventurose, di cui si delinea una sorta di genealogia), costumisti e supervisori del guardaroba, aiuto registi, agenti, sceneggiatori, montatori, illustratori, direttori di produzione, artistici, della fotografia, autori di colonne sonore, capi attrezzisti, truccatori: tutti gli ingranaggi della gigantesca macchina dei sogni chiamata cinema. Sono tanti, troppi per citarli tutti: Roy N. Sickner, l’ideatore del soggetto e di quel titolo fortunato; Gonzalo “Chalo” González, il consulente tecnico (in realtà coordinatore della produzione e factotum) senza il quale “non ci sarebbe stato Il mucchio selvaggio”; Walon Green, che insieme a Peckinpah elevò un soggetto avventuroso a “una saga di uomini fuori dal loro tempo che affrontano una sfida fondamentale dal punto di vista etico”, dando profondità a una storia che parlava “dei catastrofici effetti della tecnologia sull’animo umano, di lealtà, onore e disonore, di fallimento e di successo, di bene e di male, e, infine, di redenzione”; Lou Lombardo, che innalzò “l’arte del montaggio a un livello mai raggiunto in precedenza” (le sequenze al rallentatore hanno fatto scuola); il geniale direttore della fotografia Lucien Ballard (l’ideatore del color seppia della pellicola, che tanto fascino conferisce alla narrazione); Gordon Dawson, supervisore del guardaroba (si trattava a tutti gli effetti di un film in costume); Stephen Ferry, uno dei migliori capi attrezzisti di Hollywood; Al Greenway, l’artista del trucco; Cliff Coleman, il primo aiuto regista, “il proverbiale tipo fenomenale”, che correva sulle motociclette Triumph insieme a Steve McQueen, medaglia d’oro all’International Six Days Trial. E a capo di quest’autentica macchina da guerra, l’uomo cui l’autore tributa una sorta di venerazione, Sam Peckinpah, personaggio scontroso e umorale, che “incarnava una contraddizione vivente”, pervicace distruttore di cliché e odiatore di compromessi. Un regista che ha rivoluzionato il modo di fare cinema, dotato di una straordinaria padronanza di tutti i dettagli tecnici della produzione filmica, che sapeva tirar fuori l’anima degli attori e che ebbe l’intelligenza di contornarsi di straordinari tecnici e visionari – di vere donne e veri uomini. Perché un altro grande merito di questo libro è render chiaro che realizzare un film è ben più che girare una pellicola per raccontare una storia: a questi livelli, è un’avventura dello spirito e della carne. Bastino le parole di Warren Oates a testimoniarlo: “Provavamo le scene per le emozioni che scatenavano, per i movimenti che contenevano. E poi le facevamo, ma era come viverle, non era come fare un film. Era la nostra vita. Eravamo lì in una dimensione di assoluta verità”.
Non mancano il racconto del montaggio del film e la ricostruzione dettagliata delle roventi reazioni che suscitò alla sua uscita sulla stampa e presso il pubblico americani, divenendo una delle pellicole più discusse di sempre. Infine, dopo una breve ricognizione sugli studi critici e le biografie apparsi su Peckinpah, il libro si chiude con parole davvero toccanti dell’autore, che non è il caso di svelare.
Nell’edizione italiana di quest’opera notevole si segnalano due lievi pecche: nelle note a piè pagina non sono indicati i riferimenti bibliografici completi, e le fotografie riprodotte, peraltro interessantissime, sono scure e scarsamente definite. Ben poca cosa, rispetto a un tale dettagliato e appassionato racconto di un film che “ha cambiato tutte le regole”, probabilmente “il più grande western mai realizzato”. Di una creazione che, come scrisse Jim Kittses in uno studio pubblicato nel lontano 1969, andrebbe vista “come un altro capitolo del commento profondamente travagliato di Peckinpah sul suo paese”. Perché “Il mucchio selvaggio è l’America”.