Fornace è la seconda antologia personale di Livia Llewellyn e la prima a essere pubblicata nel nostro paese; da noi l’autrice è già uscita con il romanzo breve Profondità, sempre via Hypnos. La casa editrice presenta l’autrice come l’esponente per eccellenza del modern weird. Cosa si intenda con questa suggestiva definizione non è facile da spiegare; ci proveremo analizzando i racconti di Fornace.
Di sicuro non si tratta di quello che usualmente chiamiamo horror. I lettori devono avere chiaro in testa questo punto e non aspettarsi brevi prove ansiogene o rivoltanti. La Llewellyn non fa complimenti quando c’è da picchiare duro con scene di violenza e splatter e anche il sesso è servito grasso e bollente, ma sono spezie aggressive che si perdono nel sugo del gigantesco calderone stilistico dell’autrice. A dominare le storie è la carica emotiva.
I racconti a volte partono da spunti tradizionali di fiction del terrore («Stabilimentum» parla di un appartamento invaso dai ragni; «Signore della caccia» è incentrato su una famelica statuina pagana venduta in un centro commerciale a un ignaro acquirente compulsivo), ma si tratta solo di griglie dentro cui la Llewellyn non vuole tessere tele di spavento. Non ci si inquieta mai nei racconti di Fornace: l’intento dell’autrice non è questo. Llewellyn usa un abecedario tenebroso per formulare tiritere esoteriche. Si sprofonda in trame sempre più fitte, surreali, ambigue, in cui il solo demone ghermitore è la prosa stessa: una voce oscura che non smette mai di parlare, ma difficilmente illumina la direzione da prendere per il ritorno a casa del lettore.
Livia Llewellyn non è Barker e nemmeno una Poe al femminile. Si riconoscono le influenze di questi due autori, ma rigurgitati in una specie di sogno in tandem con Angela Carter e Poppy Z. Brite. Non vengono citate come influenze ma si riconoscono, specie in «A te spetta il diritto di cominciare» (dove le tre parche di Dracula istruiscono Mina Harker su come diventare l’ennesima puttana del loro padrone) e «Alla Corte di Re Cupressaceae, 1982» (ballata gothic rock con una brutta fine). Tra i momenti migliori ricordiamo «L’ultima pulita e luminosa estate», in cui c’è una Dea Madre in versione lovecraftiana che emerge dalle acque e libera un’adolescente dalla palude della crisi familiare in cui sta sprofondando, e il molto lodato e misterioso «L’amore non avrà alcun dominio», in cui una misteriosa voce, forse di un assassino, un angelo folle o magari solo una personalità sotterranea della stessa protagonista, racconta del cammino fatto insieme lungo una crescita dolorosa e brutalmente interrotta.
Nelle storie della Llewellyn il sangue è più mestruale che carotideo. Non siamo sessisti se riconosciamo in lei un modo tipicamente femminile di affrontare il fantastico, filtrando il buio e gli incubi attraverso il cuore, la fantasia e la magia bianca dello stile. Livia ha un’indiscutibile originalità di fondo. Purtroppo, come tutti i prototipi, occorre tempo al pubblico per capirli. Fornace è una lettura ostica e che richiede un impegno costante, non ve lo nascondiamo. Non è il genere di libro da portarsi dietro in metropolitana, occorre la giusta luce, un silenzio conquistato e molta fiducia, se si vuole apprezzare fino in fondo ogni breve e intensa visione di questa cupa sacerdotessa.