Intorno a piazza Fontana

Davide Conti, L'Italia di piazza Fontana. Alle origini della crisi repubblicana, pp. 384, Einaudi, euro 32,00 stampa

L’ultimo lavoro di Davide Conti presenta molti aspetti interessanti e innovativi nella riflessione intorno al tragico avvenimento che il 12 dicembre 1969 segnò un punto di svolta nella storia del paese.
L’autore indica piazza Fontana come l’epicentro di mutamenti politici, economici e giuridici complessi ed evita il rischio di una ricostruzione della strage centrata solo su argomenti di ordine giudiziario, sui depistaggi, le complicità, le trame nere, per collocarla all’incrocio di diversi piani di ricerca e in un arco cronologico che comprende tutti gli anni Sessanta del Novecento. Anni in cui si intrecciano differenti crisi che agiscono l’una sull’altra. Vi è una crisi politica delle formule democristiane, dopo il fallimento del governo Tambroni del 1960, che spinge con profonde contraddizioni la DC verso la creazione di un centro sinistra organico con il PSI; una crisi all’interno delle Forze Armate, che devono ristrutturarsi nel quadro di nuovi rapporti internazionali, reinterpretando i vincoli di alleanza atlantica; una crisi all’interno del mondo industriale alle prese con le lotte operaie e studentesche; una crisi della magistratura e delle forze di polizia, costrette a ridefinire il concetto di ordine pubblico degli anni Trenta, che giudicava le lotte popolari come fenomeni da stroncare con la repressione della polizia, le denunce, gli arresti e le condanne.
All’interno di un quadro in movimento, ma segnato in modo rigido dalla Guerra fredda, Conti descrive le continuità e le linee di frattura nei diversi apparati dello stato, le spinte e le sinergie che condizionarono il dibattito e le scelte politiche. Nel quadro complesso che emerge appare del tutto fuorviante la lettura che interpreta quegli avvenimenti come l’intervento nella politica di “servizi segreti deviati” e di “strategia della tensione” che separa responsabilità che furono di un’intera classe dirigente, incapace di rispondere in termini democratici e progressisti ai mutamenti sociali e alle richieste di riforma di cui il Paese aveva bisogno
Dal punto di vista politico lo scontro tra chi era favorevole al centro sinistra, come Aldo Moro, e chi lo osteggiò in modo deciso fu emblematico di quanto accadde anche nella crisi del 1969.
Antonio Segni, il Presidente della Repubblica di quel periodo, e una parte della corrente dorotea, di cui anche Moro era esponente, giocarono tutte le loro carte per impedire una svolta progressista nel Paese. Affrontare le ingiustizie, i dislivelli di sviluppo tra nord e sud, l’abbandono delle campagne, il problema della casa, i rapporti industriali, la programmazione economica, richiedeva un modo nuovo di relazionarsi con il movimento dei lavoratori che poteva o essere integrato a pieno titolo nella società italiana o visto come un “nemico interno” da trattare con gli strumenti dell’ordine pubblico, come era successo dal Dopoguerra in poi.
Il rapporto tra Segni e l’ex capo del Sifar e generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, che portò alla formulazione del Piano Solo – quel ” tintinnio di sciabole ” di cui parlò Pietro Nenni, che altro non era che la minaccia di un’azione autoritaria tesa a depotenziare la carica innovativa del PSI- rappresentò l’alternativa più conservatrice della soluzione di governo, ma quello che traspare dal volume è che, con sfumature diverse, tutti conoscevano il Piano e tutti lo utilizzarono per spegnere, in modi diversi, la carica progressista che alcuni esponenti socialisti volevano imprimere al nuovo governo.
Non si spiega altrimenti lo strenuo diniego di Aldo Moro a creare una Commissione parlamentare di inchiesta sul Piano Solo e neppure la riunione del luglio 1964 a casa di Tommaso Morlino, vice segretario nazionale della DC, dove si incontrarono per parlare degli assetti del governo lo stesso Moro, con Segni, Mariano Rumor, Benigno Zaccagini e Antonio Gava, il generale De Lorenzo e il capo della polizia Angelo Vicari, due presenze del tutto estranee a un normale contesto istituzionale e che condizionarono gli esiti politici della discussione.
Lo scontro che divise il generale De Lorenzo e Giuseppe Aloia, Capo di stato maggiore dell’Esercito e successivamente Capo di stato maggiore della Difesa, i ricatti e il “dossieraggio” ordinato da De Lorenzo contro alcuni politici, mettono in evidenza il potere condizionante delle Forze Armate, divise sui modi migliori per interpretare la fedeltà atlantica.
Nel 1969, dopo il grande ciclo di lotte operaie e studentesche e la crisi del Centro sinistra, gli stessi timori di governi troppo avanzati preoccuparono l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che espose a Richard Nixon in visita in Italia, il suo timore di un’avanzata comunista. Entrambi furono del parere che un’alleanza con il MSI di Giorgio Almirante sarebbe stata meno pericolosa di un’alleanza a sinistra. Da qui la crisi del PSU (il Partito Socialista Unificato), la scissione che diede vita al PSDI, la formazione del governo Rumor con Vice presidente del Consiglio Francesco De Martino, il quale non risparmiò critiche agli assetti di potere – in cui era costretto ad agire – denunciando le attività di intelligence statunitensi che sovraintendevano alla politica e la stretta connessione tra servizi segreti e settori dell’industria.
Conti descrive nel volume la grande stagione di lotte del 1968, che vide unito il movimento studentesco e quello operaio. Attraverso grandi mobilitazioni di massa per i rinnovi contrattuali, scioperi inediti, rivendicazioni che mettevano in discussione i vecchi modi di gestire la presenza del sindacato in funzione subordinata e che chiedevano maggiori poteri, non solo in fabbrica, il movimento, unico in Europa per il legame che si creò tra diversi settori della società, produsse anticorpi democratici che resero impossibili i diversi tentativi autoritari.
La Confindustria, divisa tra la linea di Angelo Costa e dei giovani leoni, Giovanni Agnelli e Leopoldo Pirelli, dovette affrontare il protagonismo operaio che voleva cambiare radicalmente i rapporti di forza, i ritmi di lavoro, le condizioni sociali e la disciplina negli stabilimenti che avevano messo in discussione la stessa dignità degli operai nei luoghi di lavoro.
Anche in questo caso sarebbe sbagliato pensare a uno scontro tra reazionari e progressisti. Agnelli fu l’industriale che pagò l’agente del Sifar Renzo Rocca per schedare centinaia di lavoratori della Fiat e che impiegò, con l’amico Pirelli, mezzi durissimi nel tentativo di piegare la resistenza operaia e del sindacato. Proprio il sindacato – con i settori che rappresentava – fu secondo l’autore il grande protagonista di quegli anni tumultuosi e il garante della democrazia, perché comprese le ragioni del conflitto e non criminalizzò gli operai, anche quando essi diedero vita a forme di lotta inedite e violente. Interessante il giudizio che Conti dà sui cosiddetti “infiltrati” nei cortei, che altro non erano che lavoratori che lottavano in modo nuovo e fuori dagli schemi per cambiare i rapporti di forza.
Almeno per tutti gli anni Sessanta il sindacato svolse una preziosa funzione di organizzatore e avanguardia del movimento che i gruppi extraparlamentari non riuscirono a mettere in discussione. Il movimento resistette anche quando il 19 novembre 1969 fu ucciso l’agente di polizia Antonio Annarumma e il clima si fece estremamente teso per la presenza di gruppi neofascisti che teorizzarono addirittura il linciaggio degli scioperanti. La tenuta del movimento operaio e studentesco produsse lo stesso giorno della strage, il 12 dicembre 1969, l’approvazione al Senato delle “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, approvate successivamente alla Camera e divenute legge nel 1970 con il nome di Statuto dei lavoratori.
Un volume ricco di particolari, personaggi e avvenimenti che forniscono la base necessaria per comprendere gli anni Settanta e non solo.