“Ignorare la storia vuol dire smarrire noi stessi”, scrivevano i firmatari di un appello per salvare la storia, che davvero rischia l’estinzione. Come possiamo, noi esseri smarriti, ritrovare la strada, concretamente? Siamo ancora in tempo?
Da quando ho memoria si parla di crisi della storia, del rapporto tra l’essere umano e il suo passato. Sorvolando sul fatto che (al di là di quanto ce ne possiamo rendere conto) tutto intorno a noi è storia, mi colpisce sempre come non la si percepisca per quello che è, vale a dire il modo che abbiamo di scoprire come siamo arrivati fin qui. La metafora della strada in effetti è estremamente efficace: ogni aspetto di noi – i nostri valori, la nostra cultura, la nostra quotidianità – è stato scolpito nel tempo che ci precede, e se crediamo di vivere in un eterno presente senza premesse non andremo molto lontani, credo. Quello che muove ogni persona che si guarda indietro, però, è e deve essere il voler andare avanti. Attraverso la storia noi gridiamo a gran voce chi siamo, e cosa vogliamo diventare. Non sono certo di sapere come si fa a riprendere a guardare con serietà la strada alle nostre spalle, ma è necessario – ancora di più in tempi di crisi. Leggendo, studiando, facendoci raccontare le vite e le scelte di donne e uomini che hanno vissuto prima di noi, perché ci possano ispirare.
Nel tuo lavoro citi spesso Ferruccio Parri, il quale “nel passato vedeva il futuro, e dal passato traeva linfa vitale”. Oggi sembra che la politica abbia del tutto perso questo abito mentale, i suoi protagonisti ignorano la storia, dunque costruiscono sull’argilla il loro pensiero, le loro proposte. È un processo irreversibile?
Niente lo è mai, per quello che abbiamo capito dalla storia, anche se le conseguenze di diverse generazioni di politici senza – come rilevi giustamente – questo abito mentale le pagheremo chissà per quanti anni. Tolta l’ignoranza storica abissale (non di rado sbandierata) di gran parte della classe politica di oggi, che troppo spesso si traduce in arroganza che disprezza tutto ciò che è altro, nel tempo e nello spazio, nella migliore delle ipotesi la storia, nel nostro dibattito politico, è una clava da brandire distorcendola in continuazione per fini politici. Di solito partitici, e identitari. Ovviamente l’uso pubblico della storia ha origini antichissime: era una verità già chiara al ricordo interessato degli Ittiti, popolo indoeuropeo del II millennio avanti Cristo che aveva intenzione di servirsi del passato, come sottolinea Jan Assmann in La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (Einaudi, 1997). Una società sana, però, sa rispondere colpo su colpo agli abusi, che vanno ben al di là degli usi, della storia. E in questo deve essere fondamentale il ruolo degli storici.
Lucien Febvre scriveva di Marc Bloch: “Comprendere i nostri tempi gli appariva sempre più il fine al quale deve tendere lo storico”. È sempre così per te e per i tuoi colleghi? O talvolta, in lavori storiografici anche ponderosi, si rischia di smarrire il legame del passato col presente?
Non riesco a rispondere a nome dei colleghi, ma certo quelli che chiamo “compagni” nel senso più alto della parola – compagni di strada, di valori – condividono con me questa tensione. Troppo spesso si rischia di dimenticare perché ci occupiamo del passato del genere umano: come diceva ancora Febvre, per fare storia non è sufficiente scavare e scovare dei fatti, pulirli e presentarli nel miglior modo possibile ai nostri contemporanei. Potremmo anche ripararci dietro l’illusione che esista davvero una storia oggettiva, un modo di farla che si limita a metterci appunto davanti ai fatti, come dei testimoni indiscreti calati d’ufficio da una divinità. Ma non è cosi: se non ci sono domande – scriveva Febvre – “non c’è niente”. E le domande sorgono nel presente e per aiutarci a decodificare anche (forse soprattutto) il nostro tempo.
Interrogandosi sugli eventi contemporanei, sui tratti del presente che passeranno nei libri di storia del futuro, fai riferimento alla “guerra ai migranti”, e sostieni che “verrà il giorno in cui i nostri figli e i nostri nipoti ci chiederanno conto di tutto questo”. Siamo davvero così ciechi davanti a questa barbarie, come lo furono i nostri padri e nonni che permisero la nefasta stagione del fascismo e del nazismo?
Lo siamo, anche se non tutti. Sento troppo spesso farfugliare distinguo, allontanare colpevolmente il discorso sulla nostra responsabilità – su quella delle nostre istituzioni e di noi stessi, in quanto cittadini di democrazie che questa guerra l’hanno interiorizzata al punto da subappaltare la strage al mare e a governi (stabili o traballanti) o milizie venduti come amici. Per non fare nomi, penso a Marco Minniti, che ancora difende il suo operato senza mostrare un briciolo di vergogna e rimorso. Difficile dire quanto siano paragonabili i due periodi: certo è che la porzione di colpa è oggi decisamente più diffusa, perché viviamo appunto in regimi democratici. Scriveva Primo Levi della zona grigia: “Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo, e su cui la costrizione è stata massima”. Oggi nessuno è ‘costretto’ dalle condizioni a condannare a morte o a viaggi impossibili un numero incalcolabile di persone le quali vogliono semplicemente cambiare habitat: chi lo fa è mosso da ben altre ragioni. Di solito da interessi (di carriera) del tutto personali, mi pare evidente. Ma la storia li e ci giudicherà, questo è certo.
Scrivi che, malgrado i nostri sforzi, noi europei non potremo mai liberarci del tutto dall’approccio eurocentrico. Questa triste ma lucida certezza deriva da una spietata autoanalisi o da una presa d’atto riguardo la storiografia occidentale?
Direi da entrambe. Diciamo che gli sforzi in questa direzione da parte della storiografia occidentale iniziano a essere significativi, ma sono troppo recenti, e io sono anche figlio del tempo in cui vivo: nella maggior parte dei miei studi e dei miei libri mi sono occupato del mio angolo di mondo. C’è inoltre una questione di metodo che non va sottovalutata. Se io volessi affrontare la storiografia del paese x o della regione geografica y l’ideale sarebbe poter accedere alle fonti in lingua x (o nelle lingue di y), o almeno tradotte (il che le ridurrebbe già drasticamente di numero e farebbe intervenire un’ulteriore mediazione). E naturalmente sono più le lacune che le possibilità, in questi oceani inesplorati: è difficile accedere alle storie degli altri, ma dobbiamo tendere continuamente a una storia di tutti. Marc Bloch scriveva che “l’unica storia autentica […] è la storia universale”. Se la storia, cioè, è usata da un gruppo umano per schiacciarne altri come è stato fatto con la lunghissima stagione della storia eurocentrica, può diventare uno strumento terribile. La storia, come il futuro, è un patrimonio dell’intera umanità.
Nel tuo operare di storico, dove/quando finisce la cronaca e dove/quando inizia la storia?
Questa è una delle domande che permeano il libro, nel quale cito un altro storico francese, René Rémond, che ha sostenuto: “È storia contemporanea in senso proprio ogni sequenza del passato della quale sopravvivono attori o testimoni. Fintanto che vive tra noi un uomo o una donna che ha conosciuto un momento del passato, questo momento fa parte del contemporaneo; il giorno in cui l’ultimo testimone passa a miglior vita, questo passato ricade in un’altra sezione della storia. Non siamo dunque noi che decidiamo più o meno arbitrariamente del punto di partenza di questa divisione; è la vita, o piuttosto la morte. La morte non fa che registrare le conseguenze di ciò che vi è di più oggettivo, la durata dell’esistenza umana”. È una definizione che ho sempre trovato molto affascinante, sfumata e precisa allo stesso tempo. Poi, naturalmente, dipende anche da luogo a luogo: per un mio coetaneo afghano, ad esempio, l’11 settembre 2001 è ancora cronaca? È solo un tassello di una storia iniziata molto prima o è il primo di una storia che non vuole scivolare mai nel regno della cronaca? Non ne ho idea: bisognerebbe chiedere a lui.
Per la ricostruzione di un evento o d’un’epoca, è preferibile che lo storico sia più distante o più vicino nel tempo ai fatti narrati? Per esempio, per la ricostruzione del cosiddetto scontro di civiltà segnato dall’attentato dell’11 settembre 2001, risulterebbe più lucida quella di uno storico a noi contemporaneo o quella di uno storico del futuro?
Ricordiamoci sempre che uno dei padri della storia, Tucidide, era perfettamente consapevole di essere lui stesso parte della sua ricerca, dal momento che scriveva di fatti a lui contemporanei, di cui era stato spettatore. Lo stesso, facendo un balzo in avanti di molti secoli, si potrebbe dire di storici come Eric J. Hobsbawm o Tony Judt, che hanno analizzato moltissimo il mondo di ieri.
Certamente la distanza dai fatti narrati ci è d’aiuto, per innumerevoli ragioni: oltre a un verosimile maggior numero di fonti è cruciale la prospettiva, che ci permette di vedere i processi medio e lungo periodo, che comunque possiamo tentare di ipotizzare. Questo però non toglie la dimensione dell’urgenza: dobbiamo tentare di comprendere, immaginare percorsi di lettura, narrazioni e interpretazioni anche di quegli eventi e processi liminari, al confine tra la cronaca e la storia. Gli storici del futuro ci diranno se abbiamo preso delle cantonate o se invece siamo stati capaci di seminare le prime riflessioni sul nostro tempo, con fonti che a loro potrebbero anche risultare inaccessibili.
Nell’era del Web, dei social, è aumentata o aumenterà per uno storico la difficoltà di individuare le fonti più pregnanti per comprendere e descrivere questo periodo?
Ogni epoca ha le sue difficoltà, e noi viviamo certamente in un’era di straordinaria abbondanza di fonti (basti pensare all’inesauribile bacino di testimonianze che sono i profili social e le chat private), ma non sappiamo quanto resisteranno. Come ha scritto il direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, Piotr M.A. Cywiński, “niente ha un effetto più catastrofico del trascorrere del tempo”. Pensando anche agli storici del futuro dovremo saper conservare e catalogare le fonti che riteniamo maggiormente rilevanti o che presumiamo potranno esserlo per loro.
Sempre riguardo alle fonti e al loro uso, esiste, nella tua esperienza, un gap generazionale tra gli storici, in particolare tra quelli che pongono al centro della loro riflessione l’immaginario e coloro che tendono a sottostimare l’universo multimediale, i fumetti, gli audiovisivi?
Ci sono certamente delle discontinuità generazionali e, più in generale, culturali, ma ci sono storici esperti che vedono le potenzialità di fumetti e serie TV e, viceversa, storici giovani che storcono il naso ogni qualvolta ci si avvicina al tema del nostro immaginario in continuo mutamento anche in virtù dei meccanismi narratologici, delle grandi narrazioni che si avvicendano nella storia umana. E nessuno di noi è esente dal rischio di sottovalutare enormi bacini di immaginario: la mia generazione, con alcune eccezioni, non è per esempio in grado di decodificare come si deve i videogiochi e il loro rapporto con la storia, o per lo meno non è riuscita a imporre queste riflessioni in un vasto laboratorio di sperimentazioni condiviso. Tutte queste narrazioni, però, come ora concorrono al grande racconto del passato, in futuro potranno essere fonti straordinarie per raccontare il nostro presente. Che ce ne rendiamo conto o meno.
Quanto è importante la questione del gender nella ricerca storiografica? Per esempio, nella percezione e ricostruzione dei fenomeni di questo nostro tempo, quanto incide il punto di vista diverso sul presente, la prefigurazione di un futuro differente, da parte di una nuova generazione di donne (penso a Emma Gonzales, Camila Vallejo, Malala Youafzai, Alaa Salah, persino Greta Thunberg)?
Nel libro sottolineo come, per un complicato intreccio di ragioni, il mio sguardo di storico tenda spesso a planare su storie di uomini, di esemplari maschi della specie umana. Non sono (ahimé) l’unico e la colpa non è soltanto mia. Per secoli tutti gli storici furono di genere maschile, con poche eccezioni – per esempio la bizantina Anna Comnena, nove secoli fa –, e sarebbero stati, fino a tempi estremamente recenti, in netta prevalenza numerica sulle colleghe donne. E scrissero spesso a loro volta di uomini, a causa della cultura patriarcale che schiacciava le donne in posizioni subalterne nelle aree geografiche dove la scrittura e poi la stampa diffusero (anche) la storiografia. Con il Novecento questo venne definitivamente meno, sebbene gradualmente, e l’emancipazione delle donne coinvolse anche quelle del passato, le cui storie cominciarono a emergere con maggior costanza. E in questo presente, seppure non manchino gli imperdonabili detriti patriarcali a ogni latitudine e longitudine, i segnali positivi sembrano provenire proprio da una nuova generazione di donne giovani e giovanissime (come quelle citate), che finalmente vedranno loro intitolati interi capitoli dagli storici del futuro. O almeno lo spero, con tutte le mie forze.
Sappiamo quanto sia importante, nella divulgazione e nell’analisi storica, il fattore emotivo, su cui ti soffermi nel tuo libro, la capacità cioè dello storico di trasmettere l’amore e la passione che lo guidano nelle sue indagini. Non credi però che un eccessivo coinvolgimento emotivo con la materia di studio possa privare un ricercatore della lucidità e dell’equilibrio necessari per condurre in maniera rigoroso il proprio lavoro?
Nel mettere in relazione le fonti con il contesto storico in cui sono state prodotte e con altre tracce di quel contesto, esse riprendono letteralmente vita. E questo può generare a sua volta altre emozioni, più potenti ancora: non solo quella dello scavo – archeologico, archivistico, documentario –, della conoscenza, della scoperta, che potrebbe essere più che sufficiente per togliere alla storia quella patina di noia che troppo spesso ha. Mi riferisco, in questo caso, all’emozione vera, che ti scuote – quella che in qualche modo ti permette di sentirti calato in una scena, di sentirla tua. È l’emozione del racconto, proprio per quello che evoca, per il passato che trascina alla luce. Personalmente preferisco uno storico sincero a uno che esibisce equilibrio e lucidità anche nel raccontare i lati più oscuri o più nobili della storia.
Siamo esseri umani, ed è legittimo, giusto e necessario che proviamo emozioni anche devastanti a sprofondare in un passato terribile o meraviglioso, tra le azioni e le inazioni di chi ha percorso le vie di questo mondo prima di noi. Sta a noi decidere quando mostrarle, quanto rivelare che se ci occupiamo di storia è perché smuove qualcosa di intimo in noi. Perché se a leggere le ultime parole di un padre al figlio neonato prima di venire fucilato dai fascisti ci viene un nodo inestricabile alla gola, perché se a vedere le fotografie di una città in macerie ci si stringe il cuore, perché se a sentire la registrazione di un leader nazionalista che arringa la folla seguito da un boato di approvazione ci si accappona la pelle, significa che siamo vivi, che siamo esseri pensanti, che esistiamo e vogliamo che la storia abbia senso per noi, oggi, e per coloro che arriveranno domani. Non sarebbe male, peraltro, lasciare loro in eredità un passato di cui non vergognarsi troppo.