Intervista a Giovanna Rivero: Tra Sisifo e Sheherazade

Gran Vía ha recentemente pubblicato la sua prima antologia di racconti in traduzione italiana, dal titolo Ricomporre amorevoli scheletri (recensito qui), che è anche una citazione dal secondo racconto, I due nomi di Saulo. In quel contesto, “ricomporre un amorevole scheletro” significa mettersi alla ricerca di qualcosa che possa reggere il peso dell’esistenza e rendere più forti. Si può applicare questa stessa metafora anche alla scrittura? Se sì, è una ricerca che porta a un esito positivo?

È così, la scrittura svolge proprio questo lavoro di ricomposizione di uno scheletro malconcio o sempre sul punto di rompersi definitivamente. A volte mi chiedo perché sento così tanto il bisogno di scrivere o di leggere un racconto o qualche pagina di un romanzo ogni giorno, con la stessa urgenza con cui reclamo un bicchiere d’acqua, e la risposta è sempre la stessa: perché in questi testi l’esistenza organizza e rivela il suo senso. Ed è così, allora, che l’atto di scrivere rappresenta per me uno sforzo perenne, irrinunciabile, per raggiungere, anche solo per qualche istante, quel senso sfuggente, quella ragione che riesce a illuminare persino i lati più tristi e insignificanti del quotidiano. E se dovessi scegliere la parte di questo scheletro, a tratti caotico, a cui mi piace dedicarmi con più devozione, direi che sono le vertebre, e non perché sono loro ad assicurare la giusta postura di chi si eleva verticalmente sull’orizzontalità del mondo, ma perché sono congegni piccoli, fragili, che hanno bisogno di concatenarsi tra loro per funzionare. Ed è così che immagino la finzione, come un filato meticoloso di ogni segno, di ogni simbolo. Questo lavoro, tuttavia, porta con sé la maledizione di Sisifo. È necessario tornare a raccontare più e più volte – a volte la stessa storia, nascosta sotto diverse sembianze – perché il tormento di non riuscire a catturare l’intensità della vita tutta in un racconto, o in un romanzo, ci porta a invocare di nuovo la scrittura o a sentirci suoi schiavi. Penso, in questo senso, che chi si avvicina alla scrittura si trasforma un po’ in Sheherazade, a tessere eternamente il filo della narrazione per salvare la propria vita.

I racconti antologizzati appartengono a vari generi letterari, secondo uno sguardo che include passato, presente e futuro, riunendo luoghi molto diversi tra loro. In questo progetto letterario di emancipazione dai vincoli spazio-temporali più stringenti – senza arrivare, per questo, a un sito di sradicamento – il referente “Bolivia”, tra gli altri, ritorna molto spesso e con significati sempre differenti. Sembra quasi – diversamente dall’immagine mediatica, molto limitata, con la quale si è soliti rappresentare “la Bolivia”, in Europa – che si tratti di un referente privo di un significato univoco, assomigliando, piuttosto, a un caleidoscopio di immagini. È così, oppure ci sono alcuni elementi più stabili e, di conseguenza, imprescindibili per poter parlare di “Bolivia”?

La parola “imprescindibile” spaventa un po’ se si parla del ritratto letterario di un paese così variegato, complesso, irregolare e contraddittorio come la Bolivia.  A ogni modo, se faccio uno sforzo intellettuale e affettivo per indicare alcuni tratti costanti, direi che la tensione complementare tra i suoi territori, al tempo stesso dolorosa come una scossa elettrica, è una caratteristica ineludibile. Intendo dire che non si tratta tanto di territori in cui si stagliano paesaggi commoventi, quanto di organi vivi, sia nella loro espressione idiosincratica che nella natura sublime, inafferrabile, e a volte schiacciante, intrinseca nella loro materialità. Credo la Bolivia non si possa capire fino in fondo senza, per esempio, la dualità tra l’Altopiano e la Selva amazzonica, o quella tra il Chaco semiarido e le terre umide degli Yungas. In questi territori si snodano tensioni geopolitiche che finiscono per cristallizzare la nostra concezione di ciò che intendiamo per “essere boliviano”, un dilemma che non riusciremo mai a sciogliere perché è proprio questa conflittualità a definirci. È per questo che continuiamo a interrogare lo stupore che provocò la Guerra del Chaco, tra il 1932 e il 1935, quando soldati provenienti da luoghi remoti scoprirono che i boliviani avevano molti volti, molte lingue, molte mitologie ancestrali ancora nel pieno della loro evoluzione. Il meticciato non era più un concetto teorico: era diventato uno scontro, una collisione, e questa scoperta finì per smantellare anche l’armonioso romanticismo che fino a quel momento suscitava quella parola. L’intellettuale boliviano Zavaleta Mercado aveva già evidenziato enfaticamente la variegata condizione della Bolivia. Credo che la mia scrittura cerchi di ricreare quell’orizzonte plurimo e variegato, uno spazio di molteplici dialettiche dove i miei personaggi fanno i conti con i loro problemi esistenziali. Ciò che desidero è che i luoghi amazzonici e tropicali abbiano nei miei racconti lo stesso protagonismo politico di quelli andini, molto più frequentati dalla tradizione letteraria boliviana del XX secolo.

Un altro asse fondamentale dell’antologia è costituito dall’indagine sulla vita psichica dei personaggi, la cui rappresentazione è sempre realizzata con molta attenzione e delicatezza. Con tatto, bisognerebbe forse precisare: che ruolo ha questo tipo di percezione sensoriale nella sua scrittura, nella costruzione dei personaggi e degli intrecci?

Mi fa piacere che venga percepito questo aspetto della mia scrittura perché, effettivamente, costruisco nei minimi dettagli il mondo interiore, psichico, del personaggio. Sono sicura che poi tutto il resto, il modo in cui cammina, i tratti del suo viso o quanto rumorosamente respira, sono aspetti che emergeranno in modo naturale se sono riuscita a strutturare la sua psicologia. Spero sempre che l’aspetto fisico sia l’esteriorizzazione di qualcosa di molto più profondo a cui dedico un grande sforzo creativo. Anche le trame sono tessuti molto esigenti. Non cerco in tutti i modi di sorprendere il lettore con un asso nella manica, trovo inutile questo espediente. M’interessa invece attualizzare, in un certo senso e con assoluta modestia, la tragedia classica, nel senso che il personaggio prende il posto di quel dio crudele, manipolatore, che era solito scatenare disgrazie inevitabili con lo scopo di punire la hybris umana. Nei miei racconti, quella volontà divina è trasferita all’interno del personaggio stesso, ed è per questo che lui o lei – in balia delle sue azioni – si dirige con la forza di un fiume in piena verso il suo momento di rivelazione.

All’interno di un’intessitura raffinata, senza risultare per questo inutilmente sofisticata, la sua scrittura rivela molto spesso le tracce di una violenza sociale che si estende in modo pervasivo, in molteplici direzioni. È la complessità dell’intessitura a rendere quelle tracce ancor più evidenti e potenti, senza enfatizzare o spettacolarizzare in alcun modo la violenza. Cosa occorre evitare nella rappresentazione letteraria della violenza?

Cerco di evitare a tutti i costi una rappresentazione moralizzante della violenza. Può andare bene per il giornalismo, il saggio, la cronaca, ma credo che la letteratura debba difendere la sua libertà come spazio della rappresentazione simbolica, a maggior ragione quando si tratta di una rappresentazione cupa e disturbante che non sempre si conclude con la punizione del “cattivo”. Ed è lì, in quella zona decisamente onirica, che l’immaginazione non è più schiava dell’ideologia. Perché se così fosse, la scrittura letteraria non riuscirebbe a connetterci con le nostre paure più indicibili. Per raggiungere queste zone oscure è necessario immergercisi denudati da ogni cosa, senza imperativi morali, senza obblighi. L’ontologia letteraria, se così vogliamo chiamarla, passa da un’altra parte, non gerarchizza tra il bene e il male, ma cerca invece di toccare, anche solo per un istante, la piena vibrazione di ciò che è umano. E questo non vuol dire depoliticizzare la letteratura; al contrario, significa sfidare i meccanismi di semplificazione interpretativa dei modelli economici e sociali a cui siamo sottoposti. Raccontare ciò che è umano, nel suo orrore e nella sua imperfezione, è anche resistere alle dittature estetiche del grande mercato, che vuole tutto leggibile e piatto.

 I suoi racconti presentano molti “problemi di genere”, mostrando, d’altra parte, che il “genere” spesso non è tanto un “problema” quanto una “soluzione”. Ciò si deve forse anche al fatto che le radici di queste narrazioni si estendono anche al di là del dibattito femminista contemporaneo mainstream. Che cosa pensa di questo dibattito e del suo impatto, se c’è, in letteratura?

Il punto è che questa mia preoccupazione e una certa dose di ossessione nel costruire personaggi femminili hanno a che fare con ciò a cui accennavo nella domanda precedente: ci sono nell’esistenza delle donne alcuni aspetti umani che suscitano su di me una grande fascinazione, che non smetto mai di sviscerare e, di conseguenza, torno continuamente a raccontare.
Per esempio, quello della maternità lo trovo un tema quasi soprannaturale – non per sublimarlo, non intendo fare questo – mi riferisco piuttosto al fatto che, tanto nella composizione cellulare come nella trasmissione affettiva nei confronti del figlio e nella possibilità che quegli affetti possano proiettare il loro lato oscuro e inquietante, la maternità si rivela come una sorta di transustanziazione. Transustanziazione che trovo molto più complessa dell’abnegazione o della banale riproduzione, senza chiaroscuri, a cui spesso si tende a ridurla.
A mio parere in questo momento si stanno, per fortuna, manifestando diverse tipologie di dibattiti femministi, che arrivano persino a elaborare riflessioni contrapposte. In Bolivia, per esempio, i femminismi che emergono dal mondo indigeno tengono in grande considerazione il concetto di “comunitario” come spazio il cui tessuto di produzione economica o di creazione della conoscenza è diverso dalla sorellanza internazionale tipica dell’Occidente. Sicuramente l’immaginazione contemporanea sta registrando questi fenomeni, li sta allegorizzando nella scrittura letteraria. La narrativa si nutre spesso della realtà, attingendo dalle energie che vibrano nell’atmosfera sociale i segnali per costruire un racconto, una storia che può persino agire come una sfera di cristallo. E dunque, raccogliere quei segnali implica un minuzioso lavoro di simbolizzazione. Credo sia importante trapiantare quelle realtà in un tessuto simbolico accurato, libero e audace, altrimenti corriamo il rischio di elaborare rappresentazioni che hanno il puro fine di indottrinare ed evangelizzare. In particolare, mi interessa mettere in atto una resistenza contro le estetizzazioni omologanti, usando il linguaggio e la lingua letteraria come strumenti grazie ai quali attribuisco nuovi significati alle vite che racconto. Ripeto, se il linguaggio letterario è una pedina nelle mani di una qualunque ideologia, allora all’immaginazione rimane ben poca strada davanti a sé.